Fabrizio Virgili

Ferdinando (come faranno)” di Fabrizio Virgili

Trascorrevo le estati nel paese nativo di mia madre e dei miei nonni, Pereto, in provincia di L’Aquila, appena al di là del confine con il Lazio.

Facevo vita di contadino, coi contadini. Mi alzavo che era ancora buio, per colazione consumavo il pane fatto da mia nonna e la sua marmellata, una tazza di latte, che spesso era quello che io stesso avevo munto e, in aggiunta, mia nonna mi faceva bere una tazzina di caffè, “…ca vesso te da ‘forza!”. Così iniziavo le mie giornate fortissimo e praticamente isterico. Uscivo di casa che appena albeggiava e mi aggregavo anch’io, in groppa a quello che mi era stato assegnato, alla fila dei somari che ci avrebbero portato sul posto di lavoro. Al bivio del crocefisso il gruppo si smembrava, chi doveva ji pe’ léna deviava verso gli alberi della montagna, chi andava a mietere piegava invece verso la mola per raggiungere la Piana del Cavaliere, la serena distesa che riposa tra Pereto, che la domina da est, la montagna della Madonna dei Bisognosi da sud e, un po’ più discosta, Oricola, dalla parte di Roma.

Avevo circa dodici anni e anche quella mattina seguii, col mio, il somaro di Ferdinando. Ormai non avevo più paura per il fatto che i somari camminano sul ciglio dei burroni, ci avevo fatto l’abitudine, mi fidavo. Tanto quello che mi stava portando non avrebbe mai deviato la sua marcia a ridosso del costone della montagna, a dispetto di tutte le capezzate che avrei potuto dargli.

Ferdinando all’epoca aveva poco meno di quarant’anni. Era detto ‘u mongu, per via che da ragazzo aveva fatto una brutta caduta sulle scale di casa della nonna, aveva trascurato la grossa ferita che si era procurata e gli era subentrata un’infezione, che a sua volta gli aveva provocato la gangrena. A tredici anni avevano dovuto amputargli il braccio. Aveva un carattere straordinario, sempre sorridente, disponibile.. . riusciva a trovare il lato positivo in ogni cosa. Di fronte alle avversità a cui non poteva opporsi, rispondeva “filosoficamente” con un ”fatt’ in gulu!”, come se la cosa non lo riguardasse più: serviva ad allontanare da lui ogni responsabilità. Non era rassegnazione, era la parte forte della sua filosofia di vita, non voleva scocciature e nulla lo spaventava. D’altronde, dopo quello che gli era capitato da ragazzo, tutto veniva ridimensionato negli angusti limiti delle cose insignificanti.

Fatt’ in gulu!, prenditela nel culo, come se qualcun altro fosse il destinatario dell’evento negativo. Chissenefrega. Lui, non ci avrebbe più pensato.

E’ la persona più povera che abbia conosciuto nel corso della vita. Ancora oggi, se penso alla povertà mi viene alla mente Ferdinando. Viveva, ormai da solo, in uno spazio angusto e anche un po’ buio, in cui erano ammassate tutt’intorno le sue cose.

Quando pioveva a dirotto, l’acqua gli invadeva pure la “casa”, superando la precaria barricata che egli disponeva; era impossibile arginarla quando scendeva dal Castello giù per le scale. Poco prima che gli venisse amputato il braccio aveva perduto suo padre, e qualche anno dopo anche la madre. La sua era una vita segnata dagli stenti, doveva sempre “faticarsi” tutto.

Io lo chiamavo pure Gerundio, data la mia dimestichezza con la grammatica dei verbi: finiva in “ando”…e ormai avevo terminato da un po’ le elementari… Oppure, ma non glielo avevo mai detto, Centolire, dal mio personale etimo fer-dinare, cioè denaro di ferro, appunto le 50 e le 100 lire dell’epoca. Io per lui ero Frabbi’, evidentemente più facile da pronunciare di Fabri’.

Il monco aveva per me un fascino particolare: mi attirava la curiosità di vederlo lavorare con una sola mano e provavo per lui un desiderio spasmodico di aiutarlo, quasi un bisogno, ma non volevo che se ne accorgesse. Le cose, naturalmente, andavano all’opposto, poiché era quasi sempre lui a venirmi in soccorso ora a parole, ora proprio fisicamente. Era lui il contadino.

Era strabiliante vedere come fosse in grado di agire con velocità e precisione. Aveva una forza tremenda, nel suo braccio. Riusciva a sollevare il basto e lo poneva in groppa al somaro con un solo gesto, aiutandosi col ginocchio e l’addome per alzarlo, e col petto gli dava poi una forte, ultima spinta. Subito dopo, velocissimo, riusciva a legare la cinghia sotto la pancia dell’ animale afferrandola che ancora dondolava. Il tutto mentre io cercavo ancora di sistemare la sella sul mio. La spalla col braccio era nettamente più larga e grossa dell’altra, la monca, a cui mancava il muscolo deltoideo.

Quella mattina il sole era particolarmente crudele con chi non poteva ripararsi all’ombra e noi stavamo mietendo il grano…

Ferdinando aveva portato per me, oltre al falcetto, anche le canne. Tre pezzi di canna che venivano infilati a protezione delle ultime tre dita della mano che serviva ad afferrare il ciuffo di spighe che sarebbe stato reciso dal falcetto. Spesso sentivo il filo della lama sbattere sulle canne, poco pratico com’ero, e ogni volta pensavo che senza quell’accorgimento sarei diventato come Ferdinando. Lui non aveva bisogno delle canne, naturalmente. Con una sola mano riusciva a tagliare quattro volte la quantità di grano che mietevo io, ma diceva che, comunque, era sempre un grosso aiuto quello che gli davo…

Anche io avevo il mio handicap, era costituito dall’abbigliamento. Sì, perché portavo i calzoni corti e alla fine della giornata avevo le gambe piene di graffi a causa delle spighe, che una volta recise lasciavano infissi a terra dei veri pugnali, che coi calzoni lunghi neppure si sarebbero avvertiti. Ma tornavo a casa alla sera sempre felice, noncurante delle ferite, che bruciavano soprattutto quando mi lavavo nella grossa bagnarola, prima della cena.

Più tardi mi accoglieva il frusciante letto di scartocce di granturco.

Ferdinando mi faceva sentire importante, quasi indispensabile. Io ci credevo e mi sentivo forte. Lavorava imperterrito e determinato, con la schiena più curva degli altri mietitori a causa della menomazione, ma aveva quasi il loro stesso ritmo di produzione.

Procedeva con movimento di andata e ritorno per tutta la larghezza del piccolo campo di grano. Lasciava in terra ogni singolo fascio che aveva reciso, per raccoglierli tutti insieme alla fine della bustrofedica tornata, poi ricominciava a mietere. Al limitare del . campo, i mucchietti di grano falciato aumentavano di una unità, alla distanza di un metro l’uno dall’altro, quasi fosse misurata.

Ogni tanto si fermava rialzando la schiena e asciugandosi la nuca e il collo con un grosso fazzoletto che aveva visto tempi migliori. All’inizio delle giornate il fazzoletto era rigido, ma via via che raccoglieva il sudore si ammorbidiva. Dei colori originali aveva solo una pallida traccia indefinibile: pareva prevalessero il blu e il giallo, senza che però tra i due esistesse un confine netto e preciso; l’uno era scolorito nell’altro, tanto che ora pareva invece tutto grigio, o avana, insomma un non-colore con qualche ombra bluastra qua e là. La piccola sosta era dedicata a ‘na cria ‘e acqua, ‘na biùta, dato che il sudore era copioso e gli scendeva lungo la schiena e il petto, bagnando la canottiera, rallegrata quasi con simmetria da vari buchetti. Sospendeva dunque il lavoro e dalla borraccia lasciata sotto la quercia poco distante, beveva con grossa soddisfazione l’acqua ancora fresca. L’apriva tenendola bloccata tra le gambe e girando il tappo di metallo. Non chiedeva mai aiuto. Beveva dalla borraccia grande, quella piccola col vino rimaneva ancora all’ombra. Era destinata al momento della sosta più lunga, quella dedicata a “lo magna” al “pranzo”. Erano entrambe di metallo, due borracce militari, bozzate qua e là e ricoperte da un telo grigioverde.

A volte durante la mietitura mi arrestavo guardingo e con un po’ di timore: dal rumore avvertivo la presenza di qualche animale tra le spighe ancora da tagliare. Per lo più erano innocue lucertole, più spesso grilli, due volte una rana, lo stagno era vicino, e un giorno perfino una civetta! Quella volta rimasi ad osservarla per diversi secondi. Pareva si facesse ammirare, ma era solo incuriosita, come me. Non avevo paura, ero affascinato e sorpreso di avere di fronte un uccello visto prima d’allora solo sulle figurine degli animali; era bellissima, piccola, molto giovane. D’un tratto allargò le ali e se ne andò volando lentamente. L’incanto era finito.

Dal campanile della chiesa di S.Giovanni veniva annunciato il mezzogiorno. I rintocchi stanchi dell’antica campana si spandevano lenti e solenni per tutta la Piana e i contadini sospendevano il lavoro per poter mangiare le sagne, che le loro donne avevano prima impastato e poi cotto. Erano cariche di sugo e peperoncino e ricoperte di bianco cacio grattugiato. Venivano portate abballe da fémmone di ogni età: figlie, madri e mogli sistemavano la sparra, un canovaccio che arrotolato in testa si faceva corona, e vi poggiavano sopra i canestri con i piatti pieni. Erano trascorse quasi sette ore da che Ferdinando si trovava con la schiena curva. Abbandonato il falcetto a terra, si diresse verso l’ombra della quercia, per consumare il meritato cibo, sempre con me al seguito. A lui nessuno aveva portato il cesto, dato che viveva da solo, e neppure a me, che lì in paese abitavo con nonna Laura, da tutti chiamata Lauretta. Io infatti ero molto orgogliosamente ‘u nepote ‘e Lauretta. Era quest’ultima che provvedeva a tutti e due, quando io pure andavo a faticare con lui. Mi piaceva anche pronunciarla, quella parola che indicava il lavoro quotidiano, aveva in sé il senso della forza, della sfida, del sudore, l’idea del pònos…della fatica, appunto. Non esisteva il lavoro che non avesse insita la fatica, nei campi. La terra è bassa. .

Non avevamo scambiato parola, a parte qualche suggerimento spicciolo di ordine pratico che di tanto in tanto mi aveva appena sussurrato, quasi fosse un accorgimento segreto (in realtà la gente rurale risparmiava il fiato e parlava quasi con fatica). Questo suo addestrarmi gli permetteva pure un attimo di riposo, poiché si fermava qualche secondo a sincerarsi che il suo consiglio fosse stato da me recepito e tradotto immediatamente in pratica. Io non replicavo, eseguivo in silenzio. Se Ferdinando stava, zitto, voleva dire che stavo facendo bene. il silenzio era importante, mi permetteva di sentire il mio fiato che usciva dalla bocca. Era l’uscita dell’aria dalla bocca a scandire il ritmo del lavoro.

Quell’estate compresi l’importanza del silenzio. In seguito, durante il liceo, il mio compagno di banco mi confidò che in mezzo agli altri provava fastidio, non proprio timore, ma senz’altro disagio, quando i discorsi finivano e c’era silenzio; allora parlava anche di stupidaggini, pur di “uccidere il silenzio”. Io invece avevo appreso lì, con Ferdinando, che “silenzio” non significa “vuoto” o “mancanza”, insomma qualcosa di negativo, ma momentanea assenza di suoni, rumori e voci. L’ideale per meditare.

Anche dal silenzio, imparai qualcosa.

“Frabbi’, iemo loco alla cerqua”, andiamo lì alla quercia, era stato il brevissimo ordine-invito di Ferdinando.

Sempre senza parlare, una volta arrivati alla quercia ci sedevamo a terra e scioglievamo i nodi del largo canovaccio scuro a grandi quadri che ognuno aveva portato con sé. I nodi erano due, fatti con gli angoli delle diagonali del fazzolettone legati tra loro, sempre stretti due volte.

Ogni canovaccio conteneva quasi mezza pagnotta di pane cotto a legna, che aveva qua e là qualche stria scura nella parte bassa e grigia, mentre sopra era di un. colore non brillante ma bellissimo: non era croccante come il pane di città, ma era cento volte migliore. Odorava di sole, di terra, di buono. Appena aperto l’involucro di stoffa, si potevano gustare i profumi del suo contenuto; il caratteristico aroma del pane si mescolava a quello del suo interno. Sì, perché alla pagnotta era stata tolta la mollica e si era così trasformata in un recipiente abbastanza fondo il cui cavo era stato riempito con cicoria, ripassata in padella con aglio e peperoncino, e con una salsiccia di quelle del maiale ammazzato dopo Natale, col freddo.

Ferdinando dava grandi morsi, poi appoggiava la pagnotta sulle ginocchia e la scoperchiava; la manovra gli serviva per “tirare indietro” la salsiccia. Rimanevano sul pane l’odore, il sapore, della salsiccia, ma lui l’avrebbe mangiata solo alla fine. Ogni tanto beveva un sorso di vino rosso dalla borraccia piccola. In qualche minuto il pasto era stato consumato. Come tutte le altre volte, Ferdinando si alzò in piedi ad osservare il lavoro fatto fino a quel momento. Si riempì i polmoni d’aria trattenendola a lungo, quasi volesse tenersela dentro, compiaciuto della quantità di grano mietuta.

Si sedette di nuovo, dopo aver preso da terra la giacchetta che aveva portato con sé dalla mattina. Non la indossava mai, la teneva appoggiata sulla spalla priva del braccio, quasi fosse il piolo di un appendiabiti, e gli scendeva lungo il fianco. Secondo me, all’inizio della nostra conoscenza, assolveva la duplice funzione di nascondere la mutilazione e fare da contenitore delle cose che teneva in tasca. Solo più tardi capii che serviva unicamente da mezzo di trasporto.

Ferdinando non si vergognava affatto di non avere un braccio. La vita nel paese era del tutto diversa da quella di Roma: a Pereto non era necessario “apparire”, come in città, lì ognuno aveva un’identità propria, un suo ruolo, semplicemente “era”. E lui era “u mongu”, e spesso i paesani lo chiamavano pure cosÌ. Per tutti era una cosa naturale, come avere i capelli neri o andare ogni giorno a lavorare. Dunque la giacca non svolgeva la mansione per cui era stata concepita, né quella primaria che le avevo attribuito, ma gli teneva compagnia e faceva da contenitore.

Dal taschino estrasse un prospero che era stato in precedenza tagliato a punta, in modo che ora se ne potesse servire come stuzzicadenti. Tenendolo poi tra le labbra con lo zolfo scuro che risaltava, tirò fuori da una tasca una bustina che appoggiò sull’erba.

Conteneva le cartine per confezionare le sigarette. Ne prese una e la mise sul ginocchio destro. Dall’altra tasca iniziò a tirare fuori ciò che avrebbe costituito l’interno della sigaretta: pezzetti microscopici di legno, pagliuzze, terriccio, foglie secche sminuzzate… solo ogni tanto estraeva pure qualche briciola di tabacco. Sistemò tutto sulla cartina che, con mano ferma e veloce, fece arrotolare tra indice, medio e anulare, col pollice che si opponeva e guidava. Portò il cilindretto alle labbra. Con la lingua inumidì la parte “gommata” e richiuse magicamente “a tubo” la cartina: aveva dato vita ad una sigaretta! In verità era un po’ sbilenca e con qualche rigonfiamento, ma lui la squadrò orgoglioso, se la mise tra le labbra e prese il fiammifero per accenderla. Aveva solo quella possibilità. Non aveva altri fiammiferi. Se avesse sbagliato o se un colpo di vento glielo avesse spento, non avrebbe potuto fumare. Con mossa rapida sfregò la capocchia su una pietra e subito portò la mano alla bocca, mentre lo zolfo sfrigolava e ancora non aveva dato vita alla fiamma. Protesse veloce la fiammella avvolgendole intorno le dita e il palmo e subito tirò la prima boccata di fumo. Spense lo zolfanello agitando la mano e lo conficcò ancora fumante nel terreno, a testa in giù. Poi lo estrasse, ormai spento, e lo rimise in tasca, poteva sempre servire a qualcosa, in futuro… Dette ancora un’altra aspirata ed emise il fumo contemporaneamente da naso e bocca. Rivolse lo sguardo al grano, poi lentamente ruotò il capo verso la pianura e gonfiò ancora il petto dilatando le narici, con un sorriso soddisfatto ed appagato, piegando verso il basso gli angoli della bocca. Sembrava il padrone del mondo. Era fiero e felice. Rivolgendosi a me sempre a bassa voce, quasi temendo di rovinare un incantesimo, mi disse con espressione di superiorità, da dominatore: “Ahé, Frabbi ” ma comme farràu, quigli che ‘on teu gnende?” Tradussi immediatamente: Fabri’, ma come faranno, coloro che non possiedono nulla?

Era solo al mondo, gli mancava un braccio, faceva ogni giorno una fatica da bestia, doveva industriarsi per ogni suo gesto, aveva falciato per sette ore e ancora quattro lo aspettavano…ma era sazio del lavoro, del cibo e del vino dei poveri, soddisfatto di sé…si sentiva un re. Un uomo ricchissimo e potente. Era al di sopra di tutti i poteri del mondo.

Già, come faranno quelli che non hanno nulla?

Piritu, oi fa cinguandadu ‘ anni