di Orlando Volpe – RACCONTO PRIMA CLASSIFICATO XVI EDIZIONE 2020
In piena quarantena, la mattina in questione, mi ha svegliato il campanello di casa. Sorpreso, mi
sono ritrovato davanti un signore distinto, un cinquantenne di circa un metro e 70 di corporatura
robusta, con occhi scuri e vivissimi, barba fatta, capelli non cortissimi e tirati indietro col gel.
“Buongiorno” ha esordito “è lei il signor Sante Verì?” ed io “Si buongiorno desidera?” “Ecco – ha
risposto, stendendomi un biglietto da visita – io sono il signor Novax Covid”. Senza dargli il tempo
di continuare, ho fatto per chiudere la porta, ma lo stipite mi è sbattuto contro l’alluce, dando la
stura ad una batteria di madonne santissime e venerabili. “Si è fatto male?” mi ha chiesto
irritandomi ulteriormente. “No no grazie – ho risposto visibilmente mentendo – non si preoccupi,
ma mi spiega che scherzo di merda è mai questo?”. Al che, guardandomi con un sorriso che avrebbe
voluto diventare risata, mi ha spiazzato con queste parole: “Ascolta Santì, diamoci del tu, non sono
venuto per infettarti, non ho bisogno di andare in giro per le case, è na parole, e mo mi spicce!
Volevo fare due chiacchiere con qualcuno, se vuoi me ne vado, ma se fai un bel caffè, ti spiego qual
è il mio punto di vista”. Mentre svitavo la bialetti, mi chiedevo se il periodo di isolamento trascorso,
non mi avesse prodotto la sindrome di Stoccolma. Aspettando il caffè, gli ho chiesto della moto con
cui era arrivato e lui ha cominciato a sbobinare che era una forza della natura, che certo consumava,
che ci aveva fatto quasi un milione di km e che le moto giapponesi sono indistruttibili, dei veri
trattori. Appena bevuto il caffè, mi è venuta voglia di dirgli che aveva una bella faccia tosta ad
andare in giro per le case a scocciare la gente, ma mi ha preceduto, provando a spiegarmi che lui, in
tutta la storia della pandemia, c’entrava fino a un certo punto. “Non fraintendermi” ha cercato di
rabbonirmi vedendo che stavo per sbottare “non sono così cinico da non rendermi conto di tutto il
dolore che sto procurando. Però pensaci bene: nei millenni di storia dell’umanità, le malattie ci sono
sempre state, come le guerre d’altronde. Io rappresento una parte della vostra storia, che vi piaccia o
no. Il mio obiettivo non è uccidere ma sopravvivere. Capisco che non possiamo andare d’accordo
ma mettiti nei miei panni”. Poi ha visto le carte sul tavolo e mi ha chiesto se mi andava di giocare.
“Si” gli ho risposto “magari a tressette col morto”. Sorridendo per quel mio sarcastico diniego, ha
ripreso: “Come tecnologia, rispetto al passato, non siete messi male, ma avete scelto gente a
governarvi che, con tutti i soldi che ha gestito, non ha pensato a tutelarvi. “Pe’ la Majelle – ha
sbottato – sono 50 anni che siete andati sulla luna, avete infrastrutture industriali da paura, investite
sulle armi, ma alla salute riservate soltanto gli spiccioli. Nessuno che abbia pensato sul serio che i
ricorsi storici di una pandemia avrebbero potuto ripresentarsi. Non lo trovi assurdo?”. Approfittando
del mio silenzio, ha preso a mischiare le carte e mi ha invitato a smazzare dicendo: “Una mano a
scope accusà?”. L’ho distrutto 31 a 13. Fingendo che non gli cuocesse aver perso, è tornato
sull’argomento di prima: “Vedi Santì, è solo culo se vi state ancora salvando ma non è una partita a
carte. Il vostro sistema economico è un suicidio non assistito: siete sette miliardi e crescerete
esponenzialmente di numero, con un pianeta che dispone di risorse a termine. E che fate? Pensate
solo al Pil, un numero sparato per illudervi di ricchezze di cui gode solo una piccolissima parte. Ma
vi rendete conto che la vostra è una corsa a razzo verso un buco nero?” All’istante ho pensato al
Titanic, ho preso la chitarra e ci siamo ritrovati a cantare meglio della Marini e De Gregori,
soprattutto la parte che fa: “in questa nera nera nave che mi dicono che non può affondare”. Con il
campanile che scoccava le 10, alzatosi in piedi, mi ha detto prima “devo andare” e dopo “ti
abbraccerei”, pur scoraggiandomi quando ho allargato le braccia. Una volta partito con la sua moto
fatta in Val di Sangro, sono tornato a letto, riaddormentandomi di un sonno pesante.
Per l’ennesima volta mi sono ritrovato a sognare di fare l’esame di stato. “Che cos’è la dose
infettante?” mi ha chiesto una sorridente signora che mi sembrava Ilaria Capua. Frastornato le ho
risposto che è la variabile concentrazione di virus a cui possiamo essere esposti e da cui dipende il
maggiore o minore rischio di poterci infettare. Ho aggiunto pure che a parità di dose infettante
l’ulteriore variabile è rappresentata dall’ospite più o meno immunodepresso. Insomma, un figurone.
Poi mi sono girato e in commissione ho visto Galli, Pregliasco, Ricciardi e Burioni. Mi stavano
dietro tutti in silenzio. La Capua ha poi continuato: “Verì va bene, si vede che ha visto “Di
martedì”, ma adesso ci dica che cosa le ha detto”. Basito le ho chiesto: “Mi ha detto chi?”. Al che è
intervenuto Galli: “La preghiamo di non fare lo gnorri, sappiamo che si è visto col tipo”
All’improvviso, da aula che era, l’ambiente si è trasformato in un locale fumoso e una luce
puntatami contro ha iniziato a preoccuparmi per la cefalea oftalmica, una sorta di fotofobia di cui
soffro. Il repentino cambio di scena è coinciso con un avvertimento di Burioni: “Senta signor Verì,
lei è l’unico che ha vinto giocando col covid, dobbiamo sapere come sono andate le cose”. Mi
veniva da ridere: a quel po’ po’ di commissione dovevo spiegare che era tutta una storia inventata
per sbarcare il lunario psichiatrico della mia quarantena. Mentre ci provavo, Pregliasco mi si è
seduto di fronte e ha cominciato a dirmi che non dovevo preoccuparmi, che quello che avrei detto
serviva alla ricerca, che bla bla bla, con quel suo tono gentile e garbato, senza cambi di tono, come
un prof di filosofia al liceo, un vero anestetico. Pian piano cominciavo ad annoiarmi fino al punto
che, dopo aver trattenuto uno sbadiglio, mi sono addormento sul banco. “Verìiiiiii” ha strillato
Ricciardi. Mi sono alzato di scatto e ho sbattuto la testa contro l’ombrellone, ritrovandomi in
costume sulle pietre di Punta Le Morge. La Capua in acqua, Burioni ignudo, Pregliasco sudato a
morte, con quella diavolo di maglia della protezione civile, e Ricciardi che, dopo lo strillo, ha
aggiunto “Verì, lei ha una grande responsabilità, collabori per cortesia. Galli è andato a prendere le
cozze, accenda un bel fuoco ché, dopo due spaghetti allo scoglio, ci deve dire tutto”. “Quisse sta
proprie fore” mi sono detto, ma poi ho impilato le pietre, radunato la legna e l’ho accesa. Mentre
Burioni tagliuzzava i pomodorini con una precisione maniacale, la Capua, con un tono sprezzante,
gli ha detto: “Robbè, la spiaggia naturista sta più avanti, non pretenderai che possa mangiare gli
spaghetti allo scoglio con i tuoi coglioni davanti!” Siamo scoppiati a ridere tutti, mentre ero pronto
a buttare la pasta, non appena Galli avesse finito di pulire le cozze. Poi l’ho scolata bella al dente,
ripassandola sul padellone pieno di cozze e pomodorini e l’ho pure servita. “Caro il nostro Verì, qui
in Abruzzo state bene: campagne, mare e muntagne se beve, se ride e se magne” l’ha buttata
Ricciardi, invitando ad un brindisi con un bianco ghiacciato. Dopo aver scolato i calici d’un colpo,
ci siamo fiondati sugli spaghetti, come fossimo morti di fame. Finito il primo round, due chili
m’avevano fatto buttare, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione per chiedere: “Scienziati
carissimi, mi spiegate per quale motivo siete riusciti a dirci tutto e il contrario di tutto? Faccio
l’esempio della mascherina: perché invece di distinguervi ognuno dall’altro non avete detto subito,
tutti in coro, che è importante portarla, senza possibilità di equivoci?” Dopo uno sguardo di tacito
accordo tra loro che mi ha notevolmente sorpreso, Galli mi ha risposto: “Guardi Verì, la comunità
scientifica è lo specchio di tutte le categorie umane: i musicisti, come lei, gli operai, gli imprenditori
o che ne so, i calciatori. Il problema è che si è categoria solo quando, in nome di una dignità
spendibile per rivendicare diritti, si vuole dare l’impressione di essere tutti sulla stessa barca, ma
quando si tratta di doveri ognuno rema dalla sua parte. Nella circostanza di questa pandemia
epocale, la ribalta che ci ha dato il covid ha esposto molti di noi ad accessi di protagonismo che
hanno ignorato colpevolmente il mondo di bufale in cui viviamo. La maggior parte dei cittadini si
aspetta risposte univoche che dovrebbero corrispondere a certezze, ma la scienza non è scienza se
non si alimenta continuamente di dubbi. Per una cosa vera ne occorrono cento false. E quella cosa
vera resta vera fin quando non ne arriva un’altra che la smentisce. Del covid sappiamo più di ieri e
meno di domani. La mascherina, come il distanziamento, può certo ridurre i rischi di contagio, ma
quando è esplosa la bomba in Lombardia, i buoi erano tutti scappati. Le mascherine mancavano
pure in alcuni ospedali. L’unica cosa che potevamo fare è stato dire: steteve a la case”.
Praticamente ubriaco è intervenuto Burioni, srotolando a braccio versi ameni sulla futura estate:
“Gli ombrelloni diventeranno spade e le sdraio scudi, i sassi saranno cuchelune e le pinne
schiaffatune, al grido selvaggio mo t’accide sò rrevate prime jì, dove non si alzerà la curva del
contagio, la selezione naturale procederà senza particolari affanni, già all’altezza delle curve di
Rocca San Giovanni, e sulla battigia canterò Battiato Franco, dopo aver prenotato la spiaggia
naturista, distanziato per dovere e per pudore, con la mascherina trendy tricolore e il trittico
impudìco esposto al sole”. E poi tutti, tranne una Capua rassegnata, abbiamo cantato a
squarciagola: “Mare mare mare voglio annegare, portami lontano a naufragare, via via via da
queste sponde, portami lontano sulle onde”. Alla fine rideva pure lei, con Burioni che insisteva
sganasciato a menarle pacche sulle spalle fino a quando, dopo una due e tre volte, gli si è rivoltata
contro freddandolo: “A Robbè, ma si sceme?” Poi, con un’ironia all’inglese, ha aggiunto: “Pensavo
all’ambiguo destino dei coglioni e alla vitale differenza tra l’esserlo e l’averli”. A quelle parole
definitive è sceso il gelo. Appena finito il suo secondo round, dopo veloci abluzioni, Ricciardi si è
tuffato in acqua. “Ecco, dottoressa Capua” – non ho resistito, temendo per me la fine di Burioni –
“mi spiega perché quando ero bambino mia madre mi faceva aspettare due ore prima di farmi fare il
bagno, quando Ricciardi, dopo il mezzo chilo che si è trangugiato, si è buttato dopo dieci secondi?”
Mi ha risposto solare: “Le madri latine sono ansiose. Ai loro figli il bagno glielo allungano tutt’ora.
E’ ovviamente una discreta idiozia, innocua però. Anzi, può avere il sano e inconsapevole effetto di
rendere quell’attesa un piacere più grande. Nel mondo di tutto e subito quelle madri, senza volerlo,
aiutano i figli a comprendere il senso dell’attesa e del sacrificio che occorrono per guadagnarsi un
po’ di felicità. Per evitare la congestione, quando si entra in acqua, bisogna solo evitare sbalzi
termici. Beh certo, se mangi come Ricciardi, qualcosa la rischi pure se non entri in acqua”. Della
battuta finale rideva da sola, con quella fisionomia che mi ricordava Mariolina Cannuli. Me la sono
vista in bianco e nero, davanti al tubo catodico, dopo il buonasera, annunciare ai gentili
telespettatori Sanremo. Presenta Enrico Maria Salerno, il primo in gara è Sergio Endrigo “Partirà la
nave partirà, dove arriverà questo non si sa, sarà come l’arca di Noè, il cane il gatto io e te”.
Mi sono svegliato che era domenica, la prima dopo il liberi tutti. Mi sono detto: “Vado in
montagna”. Parcheggiata la macchina a Bocca di Valle, diretto alla cascata di San Giovanni, mi
sono incamminato sul sentiero brecciato che si apre con l’ampiezza di una strada a doppio senso di
marcia. Essendo domenica, non mi sono stupito della quantità di persone che avevano avuto la mia
stessa idea. Procedendo, nei punti in cui il sentiero si stringeva, file di alpinisti occasionali
ascendenti e discendenti si alternavano in una gara di cortesia tra prego e grazie, salve e
buongiorno. Niente semafori e vigili urbani, solo l’impressione di aver sottovalutato la voglia di
evasione di tutte quelle persone dopo tre mesi di domiciliari. Quando sono arrivato a destinazione,
dopo un’ora e mezza abbondante di marcia, sembrava di stare al Megalò, con le mascherine usate
come bavaglino e senza amuchina all’ingresso. La vegetazione a copertura del sole e la
nebulizzazione dell’acqua facevano pure l’effetto dell’aria condizionata. Lo spazio davanti alla
cascata di San Giovanni era occupato in ogni ordine possibile di posti a sedere. Il frastuono degli
schiamazzi di grandi e piccini stavano rendendo impraticabile la ricerca di pace che mi aveva mosso
per arrivare fin lì. Dopo essermi cambiato la polo zuppa di sudore, ho deciso che qualunque altro
posto sarebbe stato migliore per consumare il panino con la frittata che avevo nello zaino. Per
raggiungere la cascata di San Giovanni, sono due i sentieri possibili. Quello che avevo appena
percorso era il più facile e quindi ho deciso di tornare a valle scegliendo l’altro, alla ricerca di un
posto tranquillo. Mentre consumavo il panino in solitudine, seduto sul primo tronco disponibile ad
ospitarmi comodamente, ho sentito un coro di voci non troppo lontano che intonava una melodia
dorica. Alzatomi in piedi, appena sotto il sentiero, ho visto degli strani soggetti in cerchio, tutti in
piedi attorno ad un tipo di spalle, seduto nella posizione del loto. Mentre mi avvicinavo curioso, la
suoneria dell’app Immuni ha cominciato a suonare all’impazzata. I messaggi erano un elenco di
virus: Covid, Sars, Mers, Aviaria, Vaiolo, Morbillo, Febbre gialla, Polio, Aids, Spagnola, Asiatica e
pure Ebola. Mi sono detto: “Quest’app ha qualche problema”. Incuriosito dalla precisione
dell’esecuzione del canto a cappella, con tanto di armonizzazioni a più voci, mi sono spinto più
avanti, cercando di non farmi notare, appena coperto dagli alberi, quando dal telefono è partito un
messaggio in viva voce a loop della Capua: ”Scappa Verì sca/ scappa Verì sca/ scappa Verì sca”.
Tutti i coristi hanno girato la testa di scatto con sguardi minacciosi spaventosamente rivolti verso di
me. Paralizzato dal panico ho farfugliato parole del tipo “scusate tolgo il disturbo”, ma il tipo al
centro si è alzato e mi ha detto: “Santì, qual buon vento?” Attonito e confuso ho raccolto le forze
per rispondergli qualcosa senza successo. Era Novax Covid. “Stai tranquillo” ha continuato e
rivolto agli altri “Non preoccupatevi è un amico”. Una bella donna tra loro, con le nacchere tra le
dita, gli ha chiesto “Questo è il famoso Sante Verì di cui mi hai parlato? Quello che ti ha tritato a
scope accusà?” Una grassa risata corale ha coperto il “Si cara” di Novax che, infastidito dalla
canzonatura, si è rivolto all’insalubre gruppo dicendo: “E’ questo il vostro modo di aiutarmi?
Infierire su di me proprio adesso?” Non capendo il senso di quelle parole ho domandato che cosa gli
fosse accaduto e a rispondermi è stato il più vecchio: “Io sono il Vaiolo e questo è un congresso di
virus. Ci ha convocati il suo amico perché è in profonda crisi esistenziale. Stiamo facendo di tutto
per tirarlo un po’ su di morale, persino il Tai Chi, ma questo cretino continua a leggere le notizie sui
social: lo stanno uccidendo”. Frastornato come una campana il giorno di pasqua, osservavo quel
vecchio, sfregiato da cicatrici dovunque, che ha continuato dicendo: “Ai miei tempi non c’erano
tutti questi problemi, potevi diffonderti liberamente e infettare tutti con facilità. Capisco che per noi
oggi è molto più dura ma non mi capacito del fatto che si possa perdere dignità in questo modo. Ci
abbiamo messo tempo ma il covid è il virus perfetto. Finchè non esce un vaccino, sciccise nganne
Edward Jenner, il covid potrebbe essere un nemico invincibile grazie agli asintomatici. Non ha la
erre con zero del morbillo, non ha il tasso di mortalità che posso modestamente vantare di aver
avuto io, bei tempi, ma può viaggiare facilmente da un posto all’altro del mondo, avoje a fa le
tambune! Questo imbecille non sa quanto era dura per me fare cento chilometri, per lo più a dorso
di mulo e con fortuna a cavallo”. Bevuto un intruglio verdastro, visibilmente irritato, il vecchio ha
preso un bastone e puntatomelo contro ha concluso: “Non ti azzardare a sputtanarmi su facebook” e
rivolto alla combriccola ha aggiunto “Dajj e dajje la fune se tajje, me ne so ìte”. Lo seguirono tutti
tranne la bella signora. A ben guardarla, ho notato che aveva i suoi anni, ma non ho fatto in tempo a
capire quanti potessero essere, che quella, incenerendomi con lo sguardo, mi ha detto severa: “Non
si impegni a darmi un’età, non siamo al programma di Enrico Papi. Piuttosto mi aiuti a dare qualche
consiglio al suo amico”. Avendo genialmente capito che non poteva che essere la Spagnola, le ho
risposto: “Signora carissima, in quanto all’età complimenti, non ne dimostra neppure la metà”
provocandole un sorriso smagliante “quanto a consigli chi più di lei potrebbe darne a quello che
tutti definite mio amico ma mio amico non è. Ci siamo visti appena una volta”. “Beh” mi si è rivolta
gentile “a sentir lui non è proprio così. Lei è stato l’unico ad offrirgli un caffè. Non gli farebbero
male due chiacchiere, almeno per distrarsi un pochino. E’ caduto in depressione da quando ha
cominciato a vedere che gli infettati sono sempre meno, con le voci che corrono sul fatto che ormai
sarebbe poco più di un’influenza stagionale, con tutta la gente che sostiene che la mascherina sia
inutile, che il caldo lo uccide e bla bla bla”. Mentre continuava inarrestabile, Novax Covid mi ha
guardato facendomi intendere che dovevo portare pazienza. La cosa non è sfuggita alla bella
signora che, giratasi di scatto verso di lui, gli ha mollato: “Che fai mi prendi pure in giro? Con tutto
il tempo che ho perso a sentirti? Ma sai che c’è? ‘N gul’a mmammete!”, poi prendendo il sentiero
verso la cascata. Eravamo rimasti soli, io e lui. Abbiamo passato dieci minuti a goderci finalmente i
suoni del bosco. “Mi daresti la rivincita a scope accusà?” mi ha chiesto dal nulla, come se per lui
fosse vitale. L’ho tritato di nuovo 31 a 13, anche se il settebello lo prendeva sempre lui. “Tì lu cule
gnè lu panare” se n’è uscito alla fine, per poi allontanarsi visibilmente scocciato. Non mi ha
nemmeno dato il tempo di replicare che già era sparito. Dopo un’ora di cammino, prima di
raggiungere la macchina per tornare a casa, sono entrato in un bar e ho preso una bottiglietta di
birra. Mi ha preceduto un altro avventore con la mascherina calata sul mento. Ho provato a dirgli di
indossarla a dovere ma quello si è girato infastidito dicendomi: “Fatte le chezza tì!”. Sono uscito dal
bar e mi sono seduto sulla panchina vicino al sacrario intitolato a Bafile. Lo sguardo mi è andato
sulla bandiera italiana posta lì su in alto. Sventolava sdrucita a sigillo di antichi eroismi e fierezze.
Pensavo che il covid ha cambiato la destinazione dei sogni di tutto il pianeta ma non ha scalfito di
un briciolo il senso di comunità che, nel dettaglio delle lingue e dei dialetti, si esprime sempre più
netto, come un sublime canto a cappella. Mi risuonava nella testa quel “Fatte le chezza tì”, quale
sintesi estrema del livello di libertà finalmente raggiunto. Scolato l’ultimo sorso di birra, ho
raggiunto la macchina con le gambe pesanti. Alla radio davano “Heroes”, proprio sul ritornello:
“We can be heroes, just for one day”.