di Mary Laura Santonocito – RACCONTO PRIMO CLASSIFICATO XVI EDIZIONE 2020
Quella mattina vagavo per le bancarelle di Portobello senza necessariamente cercare qualcosa, ero lì solo per distrarmi e non pensare a Desmond. C’eravamo lasciati la sera prima, o meglio mi aveva lasciato lui dicendo che non sopportava più il mio egocentrismo e quella attitudine da “wonder woman” che avevo. Mi accusava di non capirlo, di non ascoltare le sue esigenze ecc. ecc. Mi soffermai davanti una bancarella che vendeva libri antichi, alcuni erano lerci quasi da non potersi prendere in mano, altri non avevano neanche la copertina. Una ragazza stava discutendo con il venditore, non era d’accordo sul prezzo, questo era chiaro, ma non capivo il perché la conversazione fosse scesa così in basso arrivando a insultarsi a vicenda. Nell’agitazione la ragazza sventolava il povero libro di qua e di là come fosse un ventaglio, non curante di poter perdere qualche pagina. Alla fine lo buttò nella cesta insieme al mucchio ed andò via. Mi colpì la scritta sulla copertina, era un nome di donna ed era stato scritto in bella calligrafia, un po’ scolorita, con caratteri retrò. Henrietta Greene! Che bel nome pensai, ero già pronta ad andarmene quando cambiai idea e mi soffermai davanti alla cesta per prenderlo. Sfogliandolo, con grande sorpresa, mi resi conto che non era un libro qualsiasi, ma un diario personale, molto personale. Quella sera a casa, dopo una cena frugale, mi stesi nella mia poltrona preferita e, sorseggiando una tisana, iniziai a leggerlo.
Henrietta aveva iniziato a scrivere il suo diario nel 1849, quando aveva quattordici anni. Lavorava in una fabbrica di lucidi da scarpe da quando sua madre era morta prematuramente, facendo in tempo a insegnarle a scrivere. Era rimasta sola, con un fratellino più piccolo da accudire. Il padre era sparito anni prima ed a stento se lo ricordava, l‘unica cosa che sapeva di lui era che faceva il marinaio. Nel diario non scriveva di lui con rancore, ma con ammirazione per aver avuto il coraggio di scappare da quel mondo fatto di povertà ed umiliazioni. Pensava a lui, immaginando che fosse in qualche isola deserta, al sole, e non nel grigiore di Londra. Sperava che forse un giorno anche lei forse sarebbe potuta andare via in un posto lontano. Leggevo della sua vita e non riuscivo a smettere, ogni pagina era scritta fitta delle sue cose, erano forti, il più delle volte ritornavo indietro a rileggerle. Menzionava le sue giornate come interminabili.
Il lavoro in fabbrica iniziava la mattina presto per finire soltanto a sera tarda. Si lamentava del poco tempo che aveva per stare accanto al fratellino. Come la capivo! il mio era andato via di casa a diciott’anni per gli Stati Uniti ed erano anni che non lo vedevo. Facevo un po’ fatica a capire la sua calligrafia, scriveva molto piccolo, a volte mancavano delle lettere nelle sue parole; pensai che forse era dove gli erano cadute delle lacrime scrivendo. Descriveva nel dettaglio la sua vita in fabbrica e di come non avesse neanche un’amica. A momenti mi trovavo a sorridere per qualche aneddoto che scriveva sulle ragazze della fabbrica, altri mi trovavo con delle lacrime che scendevano sulle guance. Mi accorsi che il telefono stava suonando, chissà da quanto tempo, ma non volevo smettere di leggere, non risposi. Il capo reparto aveva iniziato a guardarla con insistenza, ma lei provava imbarazzo e repulsione verso quell’uomo. Le altre bisbigliavano che doveva considerarsi fortunata, ma a lei questo dava fastidio. Il capo reparto veniva descritto come un giovanotto non tanto più grande di lei, grosso e rozzo nei modi. Una sera, all’uscita dalla fabbrica, lui era fuori ad aspettarla e le aveva chiesto di poterla accompagnare a casa. La sua scrittura in questo passaggio era diventata meno nitida ed a stento la capivo, sembrava di leggere dei geroglifici. Henrietta non aveva risposto, ed aveva affrettato il passo per andare via, ma lui l’aveva raggiunta ed in un vicolo buio aveva abusato di lei, premendo forte la mano sulla sua bocca per non farla urlare. Era la sua prima volta e non era pronta per tutto questo, era ancora una bambina. Qualche passante li aveva visti ma, scambiandola per una prostituta non era intervenuto. Lui, appena finito il suo sporco lavoro, era scappato via e lei era rimasta a terra, lacerata nell’anima più che nel corpo. Non aveva più scritto niente nel suo diario per molti mesi dopo il fatto.
Era passato un lasso di tempo non ben definito ed Henrietta iniziò a scrivere di come avesse lasciato il suo lavoro in fabbrica per andare a fare la prostituta, era molto più redditizio ed aveva più tempo per il suo fratellino. Condivideva il suo alloggio con un’altra ragazza poco più grande di lei. L’edificio era un vecchio stabile, ormai abbandonato, dove le prostitute si erano insediate. Il suo alloggio era al primo piano.
Con lucidità e nitidezza descriveva il suo lavoro ed i clienti che andavano da lei, inviati dalla ruffiana che stava al piano di sotto. Le ragazze facevano a turno per stare nella stanza quando avevano un cliente, l’altra usciva portandosi fuori il fratellino per non farlo assistere a quanto accadeva. Ad un certo punto Henrietta aveva iniziato a scrivere in modo diverso. Descriveva un certo Signore benestante che aveva preso ad andare da lei spesso, in modo garbato. Elencava tutte le cose che a lei piacevano di lui e soprattutto di come fosse pulito, cosa rara per quei tempi. Si stava innamorando. La cosa più eclatante era che anche lui nutriva gli stessi sentimenti nonostante fosse sposato. A poco a poco, senza accorgersene, Henrietta gli era entrata nella testa oltre che nell’anima. Avevo sonno, erano le quattro del mattino, ma non potevo smettere di leggere, mancavano poche pagine, dovevo arrivare in fondo. Non aveva mai scritto il nome di quel Signore che amava, continuava a scrivere di lui dicendo: “Il Signore oggi mi ha detto questo, ha detto che mi ama e mi vuole portare via da qua”. Dopo qualche pagina scrisse che aspettava un bambino. Non era angosciata o impaurita come mi sarei aspettata, vedeva la cosa come fosse il frutto del loro amore; era felice come non lo era mai stata prima. Mi alzai per prendere da bere, avevo la gola secca a forza di deglutire. Quando ripresi il diario in mano, girando una pagina notai una scrittura diversa. Era una calligrafia maschile, si intuiva. Scriveva nel diario di Henrietta come se l’avesse già letto tutto e volesse continuare quanto era stato interrotto da lei. Aveva dato alla luce un maschietto e dopo poche settimane era deceduta per una polmonite. Si dilungava dicendo quanto l’avesse amata e di come si ritenesse colpevole per non averla tolta prima da quel posto. Aveva fatto scrivere nei suoi epitaffi: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Il diario era arrivato alla fine e nonostante fosse l’alba mi alzai per andare a telefonare a Desmond: avevo tante cose da dirgli.