di Arturo Bernava –
Superata la portineria sulla destra, ci si immette in un lungo corridoio affiancato a sinistra da un piccolo giardino e a destra da stanzoni grandi e bui, che danno un’impressione di glacialità, anche se è primavera inoltrata.
Suor Clementina mi accompagna in questi meandri. A metà di un corridoio più buio degli altri entriamo finalmente in una stanza mal illuminata, dove vi sono dieci letti. Nel primo di questi, sulla sinistra, c’è sorriso sdentato. Nice ha 93 anni e ci conosciamo da tre. E’ mamma di quattro figli, nessuno dei quali è riuscito ad ospitarla per questi ultimi anni di vita. Ma la cosa più atroce è che la vengono a trovare una volta l’anno, pur abitando relativamente vicino. L’anziana donna mi prende la mano e se la porta alle labbra: è il suo modo di salutarmi. Poi mi guarda negli occhi e mi dice: “E’ giunto il momento di mantenere la tua promessa: te la ricordi ?” E come potrei dimenticarla; l’avevo fatta meno di un anno prima.
Ricordo perfettamente quel giorno. Da due anni visitavo Nice puntualmente una volta alla settimana; niente di impegnativo: un’oretta parlando dei fatti nostri (così diversi eppure così interessanti per l’altro!) che volava come fa sempre il tempo passato in buona compagnia. Arrivò anche il mese di agosto e dissi a Nice: “Purtroppo la prossima volta potrò tornare a trovarti solo tra un mese; vado al mare, in vacanza a casa dei miei genitori”. Nice si intristì, ma non disse nulla, così le chiesi. “Nice, ti piace il mare ?”. A quella domanda la donna si illuminò e mi rispose: “E’ la cosa che mi piace più di tutte. Adoro il mare e mi piacerebbe rivederlo ancora una volta”. Il mio impeto fu naturale e genuino, così come la mia proposta: “E allora vieni con me, sarai ospite della mia famiglia”. Nice sorrise, mi accarezzò i capelli e disse: “Adesso no, non me la sento. Quando verrà il momento sarò io a chiedertelo. Mi ci porterai allora?”. “Te lo prometto” dissi tutto d’un fiato. Ed ora, a distanza di un anno, Nice mi chiedeva di mantenere l’impegno.
Farsi dare le chiavi della casa al mare e della macchina da mio padre fu inizialmente molto difficile, ma quando gli dissi il motivo non sollevò obiezioni, anzi mi diede anche i soldi per il pieno di benzina.
Partimmo verso le sei di pomeriggio e un’ora dopo eravamo già sulla verandina di casa mia, a guardare il mare ed il sole del tramonto che moriva dentro di esso. Nice sembrava un’altra: aveva una luce diversa nello sguardo e sembrava più agile, meno lenta nei movimenti; ma soprattutto era diversa nel comportamento: parlava, parlava e parlava, sorridendo spesso, malgrado non avesse più di qualche dente. Quella sera, rimboccandole le coperte, ebbi l’impressione di prendermi cura di qualcosa di estremamente importante e prezioso.
La mattina dopo mi svegliai presto e mi allarmai vedendo che Nice non era nel suo letto. Mi alzai di scatto e cominciai a cercarla per tutta la casa, chiamandola più volte, senza però ottenere risposta. Uscendo di casa avevo il fiatone. Appena fuori, notai un puntino nero verso est, fermo sulla battigia. Il sole nascente era già molto forte e quindi non riuscivo a distinguere chi o cosa fosse quel puntino, ma sperai con tutte le mie forze che fosse Nice. Fortunatamente lo era. Quando la raggiunsi non riuscii a rimproverarla per lo spavento che mi aveva fatto prendere; doveva aver impiegato moltissimo tempo per arrivare sin lì, ma non sembrava stanca, anzi: la luce del sole, ancora pallida, si rifletteva nei suoi occhi umidi. Sembrò comprendere la mia apprensione perché cercò di spiegarmi: “Lì in istituto all’alba siamo già tutti svegli, ma il sole lo vediamo solo quando arriva alto nel cielo. I muri intorno al cortile sono troppo alti e non c’è nessuno che ci apra la terrazza. Eppure ci piacerebbe talmente tanto !”. Annuii per farle capire che comprendevo perfettamente la sua voglia di vedere l’alba. L’aiutai a sedersi sulla sabbia e le presi la mano, resa ruvida dall’ età. Pensavo fosse calda (malgrado fosse mattina presto, faceva già caldo) ed invece era freddissima. Lei se ne accorse e sorrise mentre mi parlava, senza distogliere gli occhi dal sole nascente:”E’ il freddo dell’ anima che rende così fredde anche le mani. Quando vivi una vita non tua, diventando spettatore delle vite altrui da dietro una finestra, non riesci a scaldarti” sospirò e poi continuò “Se solo avessi potuto vedere un’alba così tutte le mattine … “. Non sapevo cosa dire e quindi rimasi in silenzio accanto a lei, che unì la propria voce a quella del mare: “Lo sai cosa mi manca di più quando sono alla casa di riposo?” scossi la testa, non riuscivo ancora a parlare. Lei continuò: “Diciamo che mi manca tutto e l’unica compagna che ho è anche l’unica che vorrei non avere: la solitudine. Le suore, quasi tutte almeno, sono dolci e gentili, anche quelle che sembrano più arcigne, ma hanno tante cose da fare. E ti ritrovi spesso da sola con il tempo, che quando eri giovane non bastava mai e che ora sembra immobile. Quel malessere dentro di te è la tua sola compagnia; è una sensazione talmente strana che vorresti scapparne ad ogni istante. Ma poi ti accorgi che quel dolore ti accoglie come l’unico rifugio possibile. Di guardarti intorno non hai nessuna voglia, perché vedresti degli specchi della tua stessa anima riflessa in altre persone. Ed allora guardi indietro e ti tornano in mente ricordi lontanissimi. Magari non ti ricordi cosa hai mangiato a pranzo, ma quella mangiata del ’56, mentre fuori nevicava e la tua famiglia era riunita intorno al tavolo, beh … quella te la ricordi nei minimi particolari ! Se non fosse per i ricordi e per la fantasia che corre lontano, non ce la faresti a far finta di non vedere quelle pillole sul comodino così invitanti”. Fa una piccola pausa, forse è affaticata, evidentemente non è abituata a parlare così tanto. “Quando ero una giovane madre mi sono dedicata senza risparmiarmi ai miei quattro figli. Lo rifarei senza incertezze e non ho il minimo rimpianto. Però ho rimandato troppe cose. Quanti viaggi avrei voluto fare, quanti posti avrei voluto visitare. Ma non c’era mai l’occasione. E ormai le mie valigie sono vuote da troppo tempo. Tante attese nella mia vita, poche gioie e fiori che ormai non potranno più essere colti. Il mio tempo è finito caro amico o, nella migliore delle ipotesi, gioca contro di me”. Mi stupii nel constatare che non c’era tristezza nel tono di Nice, solo una tranquilla e rassegnata consapevolezza. L’acqua, illuminata dal sole, brillava lontano di luce argentata. Vicino a noi era invece pulitissima e trasparente e la sabbia sotto di essa si vedeva in tutta la sua chiarezza. “Chissà perché l’acqua della mattina è trasparente mentre al pomeriggio diventa scura” mi sorpresi a pensare; mi risposi che a scuola avevo studiato qualcosa riguardo alle maree, ma in quel momento preferivo pensare alla magia di una vecchia ed un ragazzo seduti insieme sulla spiaggia di fronte al sole nascente. “Nice” finalmente ritrovai le parole “ma non ti piace proprio niente della tua vita attuale?”. Ci mise del tempo per rispondermi: “Noi per molte cose siamo fortunati. Nel nostro istituto, come ti ho detto, ci sono suore umane e l’ambiente è molto pulito. Le infermiere ci trattano con grande rispetto anche se a volte si comportano come se noi fossimo bambine ed in effetti chissà che non abbiano ragione: ad una certa età si acquisisce una follia che assomiglia molto all’inconscienza dei bambini. Ma la cosa che più mi piace della mia vita è quando vieni a trovarmi tu”. Non seppi cosa rispondere, non pensavo di essere così importante per lei. E di fronte a quella rivelazione mi tornarono in mente tutte le volte che sarei potuto andare a trovare Nice e non l’avevo fatto. Nel vederla lì, piccola e indifesa eppure così determinata a godersi lo spettacolo dell’alba, mi veniva voglia di prenderla in braccio e correre così sulla battigia, anzi no, meglio, di darle le mie gambe e farla correre libera, anche in acqua se voleva; di darle i miei occhi e con quelli farle guardare l’orizzonte lontano e chiaro e non più appannato dall’età e dal peso dell’anima, di darle i miei denti per mangiare e ridere, la mia forza per fare quei viaggi che non aveva mai potuto fare. Le presi ancora le mani e mi accorsi che si erano scaldate. Lei comprese il mio stupore e strinse ancora più forte le mie dita.
Per l’eccessivo caldo, il giorno dopo piovve e Nice rimase immobile per oltre un’ora a guardare la pioggia da dietro la finestra. Povera Nice, era così abituata a vedere il mondo da dietro una finestra che, anche quando aveva la possibilità di uscire, preferiva “proteggersi” dietro i vetri! Glielo dissi: “Nice, se vuoi possiamo stare sulla verandina: è coperta e non fa freddo, così puoi prendere un po’ d’aria buona”. Sospirò prima di rispondere: “No, grazie. Purtroppo non è il freddo che mi preoccupa, ma l’umidità. Ti entra nella ossa e ti fa stare male per giorni. E d’inverno è molto peggio, è un attacco continuo, che nemmeno cento coperte riescono a respingere”. Ormai avevo imparato a conoscere quella sensazione che sentivo dentro ogni volta che guardavo quella dolce vecchietta: era protettività. Per lei avrei voluto mandar via quelle nuvole e quell’umidità che le gelavano le ossa e l’anima; avrei voluto solo l’estate, nascondendo quell’inverno che tanto peso portava a quel corpo così leggero. Ancora una volta lei sembrò leggere nei miei pensieri. Con un gesto mi chiamò accanto a sè e mi abbracciò forte; restammo così per tantissimo tempo, come due bambini spauriti, di fronte alla finestra grondante delle gocce di un temporale estivo.
Eravamo al mare da quasi una settimana ed era ormai tempo di tornare a casa. L’ultima sera Nice era seduta sulla verandina di fronte al tramonto. L’aria era più fresca dei giorni precedenti e lei sembrava sentirla tutta. Come era accaduto spesso in quei giorni eravamo in silenzio, visto che non avevamo bisogno di parole per comunicare. Ma poi era sempre lei la prima a dire qualcosa. Quella sera la sua voce aveva un tono ancora più dolce. “Non ti ho ancora ringraziato per la settimana più bella della mia vita”. Alzò la mano per troncare sul nascere le mie proteste, poi continuò: “Sai perché ho aspettato così tanto per decidermi ad accettare il tuo invito ?”. Risposi di no. “Era una cosa che stavo meditando da tanto tempo”. Al mio sguardo interrogativo rispose dapprima con un sorriso, poi con la voce: “Mi sarebbe piaciuto morire di fronte al sole del tramonto, come questa sera e non nel mio letto in istituto o peggio su una sedia dietro una finestra”. Non mi aspettavo una cosa del genere: “Nice, non siamo noi che decidiamo quando morire”. Mi strinse la mano più forte. “No ?” sospirò prima di continuare: “Dici così perché sei giovane e non ti sei mai sentito come me, senza forze, quasi senza vita. lo sono rimasta aggrappata alla mia vita proprio per ciò che ti ho appena detto: volevo morire di fronte al sole. Alle volte un Angelo o Dio in persona è venuto a visitarmi nel mio letto e mi ha detto – Nice sei pronta? – ed anche a loro ho detto la stessa cosa. Con il loro permesso mi sono comportata come una naufraga della vita, abbracciata ad un rottame galleggiante, a qualcosa che mi aiutava a non affondare. Ma è solo un attimo: basta volerlo, lasciarsi andare con dolcezza e la morte arriva, incredibilmente naturale. Solo che quando mi sono trovata qui, non ce l’ho fatta a lasciarmi andare. Non potevo darti questo fardello da portare. lo andrei via, ma tu rimarresti qui e cosa succederebbe dopo? No, non potevo farlo”. Piccola Nice, sempre a preoccuparsi per gli altri, anche di fronte alla morte. Scossi il capo e le sorrisi con le lacrime agli occhi: “Nice” la voce mi si incrinò un po’ “non devi preoccuparti per me, pensa al tuo sogno, pensa al tuo viaggio”. Scosse ancora la testa.
Ora che il sole era per metà nell’acqua faceva più freddo e le sue mani cominciarono a tremare più forte. Gliele strinsi con dolcezza. Lei mi guardò: “Ho paura” mi disse in un sospiro. Anch’io parlai in un sospiro: “Non devi avere paura; ci sono io e non lascerò che ti sorprenda niente di brutto”.Un’espressione di infinita tranquillità le allagò gli occhi. No, non erano lacrime, era semplicemente una vita solitaria che andava via in compagnia; in compagnia del sole del tramonto, del mare agitato dal vento della sera, del profumo di iodio e di sabbia; in compagnia di un ragazzo diciannovenne che avrebbe voluto soltanto difenderla, vestirla, pettinarla, avrebbe voluto compiere per sempre quei gesti quotidiani, ma che si rendeva conto che giungono dei momenti in cui bisogna andare, anche se non si sa dove, anche se non si sa cosa ci sia al di là della finestra. Nice mi strinse ancora di più le mani, chiuse gli occhi e sorrise. Poi fu silenzio.
E’ notte ed io sono sulla verandina. Sono passati tanti anni da quella sera. Come allora le stelle mute nel cielo mi guardano mentre ad occhi chiusi inalo nella mia anima l’odore della notte. Mute, ho detto, eppure nel loro silenzio quelle stelle danno un senso al cielo, così come Nice ha dato un senso alla mia vita. E mi piace pensare che, come muta stella del cielo, Nice mi stia a guardare quando, in compagnia del suo ricordo, mi siedo sulla spiaggia a guardare la notte che si colora di luce e lascia il posto al sole che nasce.