Sez. Racconti 2016 – 3° classificata

Terza classificata

FUORI GIOCO!

Di Annalisa Giuliani

 

Di solito viaggio in aereo. Negli ultimi tempi ho sorvolato spesso questo tratto di cielo, per raggiungere Edoardo nella caotica città dove studia e che in estate lo vedrà laureato. Non sono una mamma apprensiva, ansiosa e invadente, sono una mamma qualunque. Edoardo non è un figlio debole, capriccioso, incontentabile. Edoardo è un figlio qualunque. Avremmo potuto essere una famiglia qualunque: madre, padre, figlio in un cammino qualunque. Un viaggio qualunque. Ma i viaggi a volte prendono direzioni inaspettate. Strade impreviste ed accidentate. Bisogna fermarsi, quel poco che basta per respirare, un piccolo e breve tempo. Il tempo di un abbraccio. Di solito viaggio in aereo perché arrivo prima.
Davanti il finestrino solo azzurro e nuvole. Non c’è niente che scorre, nessun paesaggio che si modifica, sugli aerei si finisce per non guardare. Da bambina pensavo che oltre le nuvole ci fosse l’ignoto. Ci fosse Dio con le schiere degli angeli celesti. Angeli sorridenti come quelli che appendevo sulla carta stellata del cielo sopra al presepe. Ma la stagione dell’infanzia è così breve. Al di là delle nuvole non c’è che azzurro e nuvole e aerei che vanno in fretta, di corsa. Il mondo evanescente di Dio deve trovarsi da qualche altra parte, forse più vicina, più contigua, più prossima, forse ci cammina accanto.
Domani sul calendario è scritto quel giorno. Ogni anno torna quel giorno, ed Edoardo mi sta aspettando, ho scelto il treno, come se il viaggio lento potesse ritardare l’arrivo di quel giorno. Un’illusione. Un inganno.
Me ne sto seduta in silenzio sulla poltroncina, nella mia solitudine benefica, mentre intorno a me ronza la vita.
Ragazzi che raggiungono i luoghi di studio, con i loro libri aperti invano sulle ginocchia. Mamme con bambini capricciosi e il disordine di giocattoli sparsi ovunque. Uomini eleganti con gli occhi fissi sul telefono e il portatile, estraniati e solitari. Vite che scorrono, come scorrono i chilometri lungo i binari sotto di me. Sopra di me ripiegati i miei vestiti e le mie essenziali cose ordinate nello spazio di una valigia. Mi piace Il treno con il suo tempo dilatato e il suo spazio ridotto. La metamorfosi dietro il finestrino: la lunga striscia del mare, i quadrati definiti delle campagne, gli alberi in fila indiana, le pale eoliche, i paesi arrampicati sulle colline. Le case lungo i binari con le facciate un po’ logore e sgualcite, come quelle facce insonni che incontri al mattino. Forse il rumore del treno rende insonni anche le case. Tutto scorre, passa in un attimo. Niente è definitivo.
Il treno procede lento verso quel giorno che non sarebbe mai dovuto sorgere e che non si può celebrare. Nessuno dovrebbe avere un giorno così sul calendario. Si dovrebbero avere solo giorni belli. Anniversari, ricorrenze di giorni felici. Nessuno dovrebbe avere la memoria di un giorno così. Avevi sedici anni quel giorno. Te ne stavi seduto, in silenzio, la testa bassa, immobile il corpo. Solo l’impercettibile movimento dell’indice che percorreva il tavolo, tracciando quel numero: 24, 24 ottobre. Come per imprimere su quel legno un’ulteriore traccia. Quel tavolo dove si mangiava, dove si studiava, si preparavano dolci, dove disegnavate gli schemi della partita di calcetto, e quei disegni che usavate per spiegarmi il fuori gioco. Mi impegnavo, volevo capire, ma proprio non lo capivo come funziona il fuori gioco, e così quelle sconclusionate lezioni si concludevano con le vostre risate e quelle espressioni di resa che facevano ridere pure me. Su quel tavolo, quel giorno, l’indice continuava a scrivere 24, 24 ottobre. Mettevi in fila quei numeri, e poi ci passavi la mano sopra come a voler cancellare, e ricominciavi di nuovo a scrivere 24 ottobre. 24, 24, 24, infinite volte, infinite invisibili tracce sul legno del tavolo.
Di quel giorno conservo contorni indefiniti, confusi, ingarbugliati, ma trattengo ancora l’immagine limpida, chiara di quel cassetto. Tutto quel dolore è rimasto cristallizzato nel disordine di quell’angusto cassetto.
Le calze. Oh le calze, sempre spaiate, scompagnate. Gettate, abbandonate alla rinfusa. Smarrite, perdute, confuse nel disordine inestricabile del buco nero del cassetto. Oh le calze le avessi avute rosse, azzurre, a quadri, a pois, a righe, invece tutte uguali: scure. Grigie e nere. Nere e grigie. Anonime, ordinarie, dozzinali. Calze qualunque. Eppure le scarpe quelle no, sceglievi quelle più improbabili, dai colori più insoliti. Una nota eccentrica irrinunciabile. Mi sono innamorata prima dei tuoi piedi e poi di tutto il resto.
Le ricordo ancora. Erano gialle e viola, scarpe da basket le portavi in giro per i corridoi della scuola insieme alla leggerezza di quella età. L’età in cui la felicità è fatta di piccole cose, è fugace, passeggera, prende la forma della campanella della ricreazione, del bigliettino scambiato tra i banchi, del compito di italiano rinviato, della gita scolastica. L’età in cui tutto diventa credibile, persino le scarpe gialle e viola.
L’età in cui il presente scorre dentro pomeriggi annoiati e perduti tra le parole della Commedia Divina. La dritta via però non la si può smarrire. Perché è dritta. Non conosce inciampi, ostacoli, non necessita di cartelli, indicazioni, la direzione è unica e obbligata si chiama futuro. Quanto futuro ci è dato, quanto tempo ci è dato? Oh le calze non ci sono calze uguali è mai possibile tutto questo disordine. Da domani si cambia, da domani… si da domani… ma quale domani? Come sarà domani?
Non trovo le calze, non ci sono, sono tutte uguali e tutte diverse. Bisogna che ne prenda di nuove, nel negozio sotto casa. Entro. Nessuno parla. Ci sono altri clienti, mi riconoscono. Sanno.
-Ho bisogno di calze.
La signora del negozio, capisce non chiede, non aggiunge parole superflue.
Non ricordo come ci sono arrivata nel portone di casa, non ricordo perché invece di entrare mi sono seduta sullo scalino con le calze strette, serrate tra le mani. Le tue calze grigie, le tue calze qualunque, ad esse mi aggrappo, un appiglio, come per trattenerti, ancorarti ancora al nostro tempo. Non te ne andare, stai con me, non mi lasciare. Ma tu non ci sei più, sei uscito e non sei più tornato.
Il tuo viaggio senza bagagli, senza valigie per il ritorno l’hai affrontato con calze ordinarie e con le tue scarpe eccentriche, quelle rosse. L’ultima immagine che avrò di te: i tuoi piedi dentro le scarpe rosse.
Così è iniziato il mio viaggio senza di te con quel pensiero che ha abitato i miei giorni. Il dubbio di non farcela. Io che non avevo ricevuto né tre, né due né un solo talento come sarei riuscita a crescere Edoardo senza di te? Come riuscire a compensare la tua assenza?
L’ho cresciuto con gli abbracci. Quando le lacrime erano riarse, quando non avevamo più parole ma solo vocali esauste, quando quel macigno sul cuore diventava insostenibile ci abbracciavamo. Ci abbracciavamo così stretti che non c’era più spazio per il dolore, i corpi combaciavano e quel vuoto in mezzo al petto si riempiva nel tempo e nello spazio di un abbraccio. Un rimedio, una cura, un balsamo.
Il dolore è filo spinato, e catene e chiodi e croce che ti inchioda. Muta lo sguardo. Trasforma la voce. Strazia la carne. Modifica i pensieri. Fa diventare altro. E vorresti cedere alla lusinga dell’oblio di te, tutta quella salsedine che trabocca dagli occhi è un invito a lasciarsi inghiottire dai flutti, vorresti annegare piuttosto che continuare a navigare a vista senza più punti cardinali, senza più orientamento.
E poi un passo alla volta, un giorno alla volta. Abbiamo imparato a convivere con la tua assenza. Un’assenza intollerabile anche per le tue cose. I vestiti che non hai più indossato, la musica che non hai più ascoltato, il pallone che non hai più calciato, il libro che hai lasciato aperto sul comodino. L’assenza che ha sopportato anche la nostra casa: la finestra spalancata sulla piazza, il colore delle pareti, la sedia sul balcone di fronte alla Maiella, le scatole di cianfrusaglie nel sottotetto. Ma non abbiamo mai coniugato i verbi al passato. Abbiamo parlato di te e con te ogni giorno. E io non ho smesso di raccontare di te e di noi. Di comporre quell’album di foto e narrare il racconto di quegli attimi fotografati. Impressa sulla carta fotografica il tuo sorriso, più luminoso di qualsiasi altro dettaglio. Il mare, il prato, il cielo, il campo di calcio tutto rimaneva fuori fuoco. Una competizione impari tra elementi.
Il treno si ferma. Mi vieni incontro, il treno muore qui. Sì, muore, adesso riesco a pronunciarla questa parola. Per molto tempo ho usato altre: “non c’è più”, “non è più con me”, parole fittizie, artificiose, parole stampelle sulle quali appoggiarmi per continuare a camminare.
Ci abbracciamo. Ci incastriamo perfettamente anche se tu mi superi di molto, siamo complementari, combacianti, uniti. Un fermo immagine sulla banchina dove si avvicendano incontri e arrivederci, arrivi e partenze. Piena di quella vita che si smuove, che corre, che si affanna, si agita. La vita che viaggia di corsa e che si fa sentire nel rumore dei passi frettolosi, nel cigolio delle ruote delle valigie. Nel vociare incessante dell’umanità che popola le stazioni e che prende le infinite direzioni dei binari, verso il proprio esistere. Ma noi restiamo immobili nel nostro abbraccio, indifferenti al tempo che continua a correre insieme a queste affollate solitudini che ci toccano, ci sfiorano. Il nostro tempo è così: una pausa, un punto, una corona sullo spartito.
Hai detto che avevi una sorpresa per me, ma mai avrei immaginato si trattasse di questa. Così oggi 24 ottobre ci troviamo nello stadio, dici che questa partita va vista perché questa finale di scudetto la stiamo aspettando da tempo immemorabile. Capisco che dobbiamo tifare quelli con la maglia a strisce nere e azzurre, perché erano quelle le magliette che vi mettevate ogni domenica davanti alla Tv, dicevate che erano portafortuna io ridevo quando vedevo le vostre facce alla fine di quegli interminabili minuti, capivo che le magliette non avevano potuto nulla. Ci voleva un talismano più potente.
Sono qui seduta e credo di essere l’unica a non capire come funziona questo gioco, ma sono contenta. Tutta questa gente che canta che si agita ed esulta. Tutto questo sventolare di bandiere. E’ ancora caldo, un sole che porta ancora la memoria dell’estate. Sono attenta seguo il gioco, ogni tanto gli occhi li poso su Edoardo e le sue smorfie, ha indossato la maglietta, spera che questa volta porti davvero fortuna. Riconosco quella maglietta, non è più un bambino è un uomo e quella maglietta gli sta bene come se fosse stata sempre sua.
Stiamo vincendo, tutti cantano ormai la vittoria sembra cosa fatta, mancano pochi minuti ma eccolo quel pallone che va dritto verso la rete. Per un istante tutto rimane fermo e sospeso, come se il tempo si fosse congelato. E poi siamo tutti in piedi a gridare, ma il mio grido è arrivato per un infinitesimo di tempo prima di tutti: “Fuori gioco!” grido. “Fuori gioco!” gridano tutti.
Edoardo mi guarda stupito e io ancor più convinta strillo:
“Edoardo è fuori gioco è fuori gioco!!!” e mi affretto a spiegare la posizione degli uomini in campo ad avvalorare la tesi. Come se quei disegnini sul tavolo della cucina mi fossero diventati all’improvviso chiari. Una comprensione tardiva. Una conoscenza sopravvenuta.
Edoardo ride, dovrebbe piangere per la sua squadra, ma ride. Ride come un pazzo. E rido anche io per la mia inedita consapevolezza:
“Ma alla fine non era così difficile, è facile capire sto fuorigioco!!!”
“Certo mamma è facile, facilissimo, è una cosa facile come vivere, è facile come amare”.
Ci avviamo verso casa, le bandiere continuano a sventolare, non importa come è finita la partita. Non importa il destino di quel fuori gioco. Se la squadra con la maglietta a strisce nere e azzurre abbia vinto o abbia perso non importa. Importa solo che torniamo a casa. Ai nostri giorni. Al nostro tempo.
A casa, preparo la cena, stasera si festeggia anche se oggi è quel giorno che sul calendario dovrebbe essere cancellato, anche se trovare le cose dentro questa cucina diventa compito arduo, un disordine inestricabile, una confusione ingestibile. Ci vuole un tempo lungo, smisurato per orientarsi in questi cassetti. Sorrido. Mi siedo. Resto un po’ qui ferma, quieta, serena. Dall’altra stanza sento Edoardo che traffica, si muove, si agita, canticchia, vive. Non lo so che ora sia, non porto più l’orologio, in fondo il tempo è un’ipotesi, una convenzione. Ieri e domani sono il tempo di un respiro. Il tempo di un abbraccio. E’ vero la morte non aspetta, ma non aspetta nemmeno la vita. E noi abbiamo scelto di sopravvivere, di vivere. E’ cosa facile vivere, è cosa facile amare. Forse era questo il mio talento.

(A Caterina e Gianluca e al loro nuovo viaggio e al loro nuovo tempo.)