Storia d’amore e di persiane
di Massimo Brusasco
“Uh, che polvere! Ma è segatura questa, o sbaglio?”
“Veda lei… siamo in una falegnameria”.
Iniziò così, un anno fa. Era il 21 marzo. Luisa esordì con una domanda stupida e proseguì con una pretesa balzana: “Ho visto le sue persiane anticate. Belle. Ne vorrei due così”. Mi trattenni dal chiederle se mi stava prendendo in giro, limitandomi a dirle che le imposte delle finestre del mio laboratorio artigianale erano semplicemente vecchie, corrose dal sole, dalle intemperie e dal logorio del tempo. “D’altronde, se nelle case degli idraulici ci sono rubinetti che perdono, perché un falegname non potrebbe permettersi persiane scrostate e malmesse?”. Ci capì poco, ma sorrise. E tanto mi bastò.
Con la primavera arrivò Luisa a stravolgere una vita che con le rivoluzioni pensavo avesse già pagato dazio, dopo la morte di mia moglie, logorata da un cancro più competitivo di ogni cura, e la decisione di mio figlio di cambiare lavoro: “In falegnameria non c’è futuro. Grazie per avermi insegnato a usare la pialla e per le spiegazioni su come si costruisce una sedia, ma fra pochi anni non ci saranno più sedie da costruire e neanche mobili. Arriveranno direttamente dall’America , dalla Cina, da chissà dove. Costeranno meno, la gente farà coda nei negozi specializzati, aperti anche la domenica. E pagherà a rate”.
Provai a ribattere: “Sì, ma i miei mobili… Vuoi mettere le rifiniture, la cura maniacale dei dettagli? Gli stucchi, le levigature, le piallate? Le mie piallate sembrano carezze, perché quando io….”. “Sì, bravo papà. Accarezza pure ciò che vuoi, ma non pretendere di farmi stare in questo posto, dove non c’è futuro e nemmeno speranza. Qui c’è solo segatura”.
Francesco se ne andò, la segatura rimase. Se ne accorse anche Luisa, giusto un anno fa, il 21 marzo 1986. “E allora, ha deciso?” mi chiese. Sussultai: “Deciso che cosa?”. “Intanto, non si risponde a una domanda con una domanda” mi precisò. In altre circostanze, probabilmente, avrei congedato il potenziale cliente con una di quelle scuse di cui abbonda il mio repertorio di giustificazioni. Quella volta, però, non andò così. Mi trattenni. E lo feci anche quando lei cominciò a gironzolare per il laboratorio, incurante dei cartelli di divieto e di pericolo. “Bella questa, cos’è?”, mi chiese indicando una morsa. Cercai perfino di spiegarle il funzionamento, ma lei ignorò le mie parole, distratta com’era dalla teoria di martelli, disposti in ordine su un pannello, dal minore al maggiore. “Che carini questi. Li usa tutti?”. Frenai l’istinto che avrebbe voluto risponderle “non contemporaneamente”, e dissi un semplice “sì”, affermazione che forse non ascoltò perché aveva ormai spostato l’attenzione sui cacciaviti e su una serie infinita di chiodi. “Ci sono un sacco di cose qua dentro. Bravo, signore. Segatura a parte, è proprio bello il suo negozio”.
“Grazie, ma non è un negozio. E’ un laboratorio. Un laboratorio artigianale, attivo da una quarantina d’anni”.
“Ah, che bello. E fa tanti mobili, lei? E quanti mobili riesce a fabbricare in un giorno? E ci vuole tanto tempo per costruire, ad esempio, una cassapanca? E una persiana? Lo sa che a me piacciono molto le mensole?”
La seguii fisicamente, temendo che andasse a ficcare le mani dove non avrebbe dovuto, ad esempio nei barattoli delle colle. D’un tratto si voltò e mi disse: “Allora, me le fa le persiane come le sue?”. Non aveva capito che le mie, per ridursi così, avevano impiegato quarant’anni, rosolandosi al sole, bagnandosi di pioggia e intirizzendosi al gelo. Provai a obiettare, ma mi sfoderò uno di quei sorrisi contro i quali è difficile combattere. Le avrei dovuto dire che non avevo tempo da perdere, per l’incombenza di una consegna, ma rimasi come imbambolato.
Improvvisamente mi sentii indifeso. Cercai conforto nelle mie certezze: il calendario che reclamizzava un mobilificio; un paio di quadri senza valore che la polvere migliorava perfino; il disordine quotidiano, caratteristica del mio stanzone in cui le pareti, quel giorno, mi sembrarono tutt’altro che protettive. Mi scoprii vulnerabile, attaccato da un sorriso e da occhi verdi.
Luisa si sedette dopo aver dato con la mano una frettolosa spolverata alla sedia. Mi scusai per l’accoglienza approssimativa, cercando di ricordarmi chi fosse stata l’ultima donna ad essersi accomodata lì. Non me ne venne in mente nessuna. Mia moglie, nelle rare presenze in laboratorio, se ne stava in piedi. Toccate e fughe, qualche frase di ordinaria amministrazione, le solite raccomandazioni: “Ricordati di telefonare a Pinco Pallino… guarda che Tizio aspetta il preventivo… Caio vuole il mobiletto entro la fine del mese…”. E probabilmente anche Sempronio avrebbe avanzato qualche pretesa. Con noi artigiani è così. Dal momento che la retorica ci accusa di scarsa puntualità, la clientela si sente legittimata a sollecitarci, forse non sapendo che un falegname come me non può confezionare una persiana in un giorno, né una credenza in una settimana. E’ questione di precisione, manualità. E poi bisogna sottostare alle pretese di colle e vernici, che necessitano di tempo. Insomma, a noi non si deve mettere fretta. Forse per questo mio figlio se n’è andato: lui è della generazione che non sa aspettare. Bisogna muoversi, spostarsi, fare, cambiare. Se c’è qualcosa di rotto, lo si butta, mica lo si ripara. Non si può attendere… via, via, via…
“Arriveranno dall’America e dalla Cina…”. Nelle orecchie mi risuonano spesso quelle parole, anche se non ho ben idea di cosa possano fare gli americani, i cinesi o chi per loro. So cosa faccio io; so quanta passione impiego, come ricerco la perfezione, quante ore trascorro qui a districarmi tra macchinari che non saranno i più all’avanguardia ma che io conosco centimetro per centimetro. Sono miei compagni indispensabili, che nel laboratorio esistono da sempre.
Non come Luisa, che arrivò all’improvviso e che inaspettatamente si sedette su una sedia che forse non aveva conosciuto femmine. “Non mi offre neanche un caffè?” mi domandò. “Glielo stavo chiedendo” risposi, mentendo. Poi tentai una carta jolly: “Lo vuole macchiato? Ho anche il latte”. Lei sorrise, trafiggendomi ancora. E disse: “Basta che non sia come quello che ha preso Sindona”. Mi indicò il giornale, che avevo lasciato intonso su una scrivania. Sulla prima pagina campeggiava la foto di Michele Sindona, con la notizia del decesso avvenuto nel carcere di Voghera. Un caffè avvelenato si era portato via il faccendiere. “Bella storia, eh? Lei lo sa che era nella P2? Lo sa che aveva implicazioni anche nel delitto Calvi? E lo sa che è stato accusato di essere il mandante dell’omicidio di Ambrosoli?”. Di persiane ne capiva poco, ma sui fatti di cronaca sembrava informata.
Chiesi il permesso di assentarmi e raggiunsi un piccolo vano destinato a cucina, buono per le emergenze e per le piccoli soddisfazioni quotidiane, tra cui il tè di metà pomeriggio e il caffè, un paio di volte la mattina. Preparai la caffettiera con meticolosità, neanche avessi dovuto fissare le cerniere all’anta di un mobile di pregio. Lavai per bene un paio di tazzine, badando che non fossero sbreccate. E cercai due cucchiaini il più possibile lucenti. “Non posso fare brutta figura” dissi a me stesso. A mente fredda, giorni dopo, mi sarei chiesto se fossi impazzito, trovando risposta nelle ragioni dell’amore.
A chi mi domanda se il colpo di fulmine esiste, posso rispondere senza esitazioni. E credo lo confermi Luisa, la signora che esordì parlando di persiane, quella che curiosò fra gli attrezzi del laboratorio, che si sedette dopo aver ridotto la densità di polvere, che si fece offrire un caffè e che raccontò con dovizia di particolari il delitto di un personaggio non troppo raccomandabile.
E che adesso, un anno dopo, riempie le mie giornate e soprattutto il mio cuore. E’ di nuovo primavera; la scadenza mi aiuta a ricordare un anniversario impossibile da dimenticare. Per stasera ho prenotato una cenetta in un ristorante come Dio comanda. Francesco mi ha telefonato a mezzogiorno per le raccomandazioni: “Papà, non badare a spese” è stata l’ultima di un elenco piuttosto fitto.
Fra poco andrò a prendere Luisa, con una puntualità da stupire i miei clienti. Si è fidanzati, ma ognuno a casa sua, alla moda antica. Lei, figlia unica, accudisce sua madre, malata da tempo. Il marito se n’era andato proprio a causa della suocera. “Ti sembra una buona motivazione?” chiese lei. Lui ribatté: “E a te sembra logico che la nostra vita sia condizionata da quella lì?”.
“Se la pensi così, vattene pure. Comunque, non si risponde a una domanda con una domanda”.
L’uomo se ne andò. La famiglia si ridusse a una vecchia malata e a sua figlia che pensava di avere chiuso con l’altro sesso, “tanto più che i colleghi maschi sono uno peggio dell’altro”.
Poi arrivò il 21 marzo 1986. E la sua necessità di persiane nuove, uguali alle mie vecchie.
Dopo il caffè, si proseguì in chiacchiere senza costrutto a parte quando ci raccontammo, in sintesi, le nostre vite. Il telefono trillò e lo ignorai. Meglio un sorriso nuovo di un rumore abituale. D’un tratto presi un’iniziativa: “Ho deciso: le farò il lavoro. Mi lasci il suo numero di telefono, le comunicherò il preventivo”. Non esitò. Raccattò sul mio tavolo un mozzicone di matita, afferrò il giornale e scrisse sei cifre, in uno spazio bianco quasi sulla fronte di Sindona. Poi mi disse: “Mi auguro che il preventivo non sia l’unico motivo di una sua telefonata. E spero che, la prossima volta, ci si darà del tu. Perché ci sarà una prossima volta, vero?”. Radunai le idee e chiesi: “Perché non dovrebbe esserci?”. “Non si risponde a una domanda con una domanda. Ma per questa volta la perdono ancora”. Si alzò, se ne andò. Rimasi impietrito, con centomila pensieri e due tazzine da lavare.
La mia telefonata si fece attendere non più di un’ora. “Sono il falegname”.
“Lo so” mi rispose con la certezza propria di certe donne.
“Come lo sa?”.
“Sesto senso: immaginavo che mi avrebbe telefonato. Mi scusi un attimo, che abbasso la radio”. Cinque secondi e tornò: “Avevo alzato il volume perché c’è una canzone di Ramazzotti che adoro: ‘Adesso tu’. Ha vinto pure il Festival di Sanremo. Le piace Ramazzotti?”. Dissi di sì, anche se quel nome l’avevo sempre associato solo all’amaro. La serata la trascorremmo al telefono, come fanno gli adolescenti. Il giorno dopo lei tornò nel laboratorio, dove io avevo rimosso la segatura e spolverato tutto lo spolverabile. Mi affrancò un bacio: sapevo che sarebbe arrivato, ma non pensavo così presto. Un po’ di sesto senso ce l’ho anch’io.
La nostra storia funziona. Lei dice che tratto il nostro rapporto da perfetto artigiano, per la precisione, la meticolosità, la cura dei dettagli. Anni e anni di laboratorio lasciano il segno, evidentemente. E poi forse, inconsciamente, entrambi avevamo voglia di rifarci una vita, ricostruendo quello che ci è stato tolto da un male incurabile e da un marito incapace di sostenere le difficoltà.
Ieri mi sono fatto un regalo d’anniversario: una cassetta di Eros Ramazzotti, con la canzone che Luisa stava ascoltando la prima volta che le telefonai. “E ci sei adesso tu a dare un senso ai giorni miei va tutto bene dal momento che ci sei adesso tu” sembra una frase scritta per me. Quando salirà in auto, premerò il tasto play dell’autoradio. Spero che mi fulmini con un sorriso.
Non dovrò neanche ricorrere al campanello. Ormai riconosce il motore della mia macchina. S’affaccerà alla finestra, mi urlerà “arrivo” e, prima di scendere, chiuderà le persiane. Uguali a quelle del mio laboratorio, nuove che sembrano vecchie, al contrario mio che sono vecchio ma che, grazie a questa inattesa questione d’amore, sembro, anzi mi sento, decisamente nuovo.
Mi sono impegnato a fondo: non potevo proprio non soddisfare quella richiesta avanzata nel giorno dei commenti su Sindona e del debutto di una straordinaria primavera. Si complimentò, al momento della consegna: “Costruisci cose magnifiche”.
“Non tutte quelle che vorrei”, obiettai. Chiese spiegazioni, gliene diedi una: “Mi piacerebbe fabbricare ricordi”. “Cioè?”. Presi fiato e dissi: “Abbiamo dato vita a una storia nell’età in cui molti, le loro storie, le finiscono. Noi la stiamo vivendo intensamente. Ma ci mancano le cose fatte insieme: belle, brutte, qui, altrove, teatro, concerti, viaggi, amicizie… Per tanto che faremo, non riusciremo a recuperare il tempo perduto, ecco perché sarebbe bello potere costruire ricordi”. Sorrise e mi disse: “Sei artigiano, dovrebbe bastarti quello che crei. E a me, comunque, interessa di più guardare al futuro”. Mi venne istintivo chiedere: “Un futuro insieme?”. Lei mormorò: “Tu cosa ne dici?”. Non resistetti alla tentazione di puntualizzare: “Non si risponde a una domanda con una domanda”.
Però, la faccenda che tirai fuori quella sera mi ronza spesso nella mente. Con una certezza, che sa di consolazione: gli americani e i cinesi che, a detta di mio figlio, tutto costruiranno, in fretta e a prezzi bassi, a fabbricare ricordi non saranno in grado, neppure loro.