primo classificato
L’intoccabile
di Giovanni Maria Pedroni
«Maledetto ubriacone!»
Scaraventò l’uomo sul selciato, proprio di fronte al negozio di liquori.
Mentre stava per rialzare la testa, l’altro gli tirò addosso la bottiglia, che rimbalzò sul suo dorso e rotolò a terra senza rompersi.
«Prenditi anche questa! Pezzente!»
L’uomo abbassò il capo a terra. I capelli sudati strusciarono unti sul marciapiede.
Con gli occhi a fessura per il baluginare del sole, osservò la realtà deformata dal vetro, che per tre quarti conteneva ancora whiskey.
La sua vita era stata sempre così.
Distorta dall’insensibilità della gente.
Confinata, emarginata, incompresa da tutti!
E ogni evento della sua esistenza si era concluso sempre allo stesso modo.
Scaraventato a terra dalle disgrazie della vita.
Calpestato.
Schiacciato!
Umiliato.
Moglie, amici, colleghi di lavoro, vicini di casa, conoscenti… Tutti ce l’avevano con lui. Tutti non l’avevano capito.
Anzi!
Tutti l’avevano lasciato.
Prima con la derisione, poi nel disprezzo. E infine, la peggiore di tutti, l’indifferenza!
Voleva farla finita, ma forse era un vigliacco. Perché non aveva neanche la forza di uccidersi da solo. Preferiva “lasciarsi morire”… Pezzo dopo pezzo… E anche oggi aveva deciso di partire dal fegato.
Solo che non aveva un centesimo.
Quel maledetto del negozio di liquori l’aveva beccato subito a scolarsi la bottiglia e a mettersi il resto sotto l’impermeabile.
Si alzò vacillando.
Raccattò il whiskey e guardò di traverso.
Fece per avvicinare il collo alla bocca, ma si ritrasse schifato.
“No! Io non accetto l’elemosina” si disse fra sé “Ho una dignità anch’io!”
Con un balzo dinoccolato si avvicinò all’ingresso del negozio e con una forza barcollante scagliò la bottiglia di liquore sulla vetrina, che recava in vista altre marche di alcoolici. I vetri andarono in frantumi e i liquidi si mescolarono.
Un ghigno beffardo tagliò il suo volto.
Infilò in un angolo della bocca un mozzicone di sigaretta che aveva raccattato da terra la sera prima. Dall’altra tasca del soprabito prelevò un cerino che appicciò in un solo deciso movimento della mano. Forse l’unico istante della giornata in cui le sue dita sarebbero riuscite a stare ferme.
Avvicinò il palmo alla bocca.
E gettò il fiammifero ancora incandescente verso il negozio.
Il liquido infiammabile prese fuoco in un lampo!
La vampata stupì l’uomo che si allontanò spaventato.
Intanto dal locale erano usciti i clienti e il titolare che, con un minuscolo estintore, in proporzione alle dimensioni dell’incendio, stava cercando di salvare la sua attività.
L’uomo si sedette su un muretto dall’altra parte della piazza a gustarsi la bionda e ad ammirare lo spettacolo.
Poco distante un fumo nero si alzava verso il cielo.
Voci concitate urlavano rabbia ma soprattutto paura.
D’un tratto l’uomo fu pervaso da un insolito senso di pace.
Era stato umiliato da quel bottegaio da quattro soldi, sbattuto a terra come un barbone, trattato come un ladro! E ora, che aveva provocato accidentalmente quell’incendio, senza alcuna intenzione reale, si sentiva meglio.
Ma non era un senso di vendetta appagata.
Che cosa gliene fregava di quel commerciante disgraziato?
Era un senso quasi di libertà, che contrastava con il senso di inutilità che negli ultimi tempi lo pervadeva.
Una sensazione stranissima, che non aveva mai provato prima…
* * *
Dove sarebbe andato a dormire quella sera?
Non sapeva ancora.
Non gli andava di tornare in quella topaia dove un’affittacamere squallida come una maitresse gli lasciava una stanzetta, più piccola di una cella carceraria e più sporca di un gabinetto pubblico.
Ma prima bisognava risolvere il problema del pranzo.
Si allontanò dal centro e si ritrovò nella via di un suo vecchio amico.
Chissà quale istinto l’aveva condotto verso la sua abitazione?
Guardò il palazzo che occupava un isolato.
Un tempo frequentava quei luoghi. Le abitazioni signorili. Le case della gente per bene!
Si ricordò del proprietario di quella dimora dapprima con nostalgia, poi subentrò il rancore. Si rammentò delle offese perpetrate all’interno di quelle mura dal suo padrone. Gli venne in mente anche di quella volta in cui quell’uomo gli aveva rubato la sua donna, e ne aveva fatto una forma di vanto davanti a lui e ai suoi conoscenti, per mortificarlo ulteriormente.
In un impeto di rabbia passò davanti all’uscio.
Si guardò intorno.
Abbassò la cerniera e urinò contro la porta, ridendo di gusto.
Quando ebbe finito, si aggiustò la patta e proseguì lungo il cancello.
Nessuno l’aveva visto. Ma davanti all’inferriata c’era la sua automobile.
Si ricordava di come quell’”amico” fosse così pieno di boria e colmo di supponenza, che non chiudeva mai la vettura e lasciava sempre le chiavi attaccate al quadro, convinto che nessuno potesse mai osare rubargli qualcosa.
L’uomo si guardò ancora intorno.
Nessuno!
Agguantò la maniglia.
Ruotò la manopola.
La portiera era aperta! Come immaginava.
Si sedette in un attimo al posto di guida.
Un intero mazzo era attaccato alla base del volante.
L’uomo fece un’ultima ispezione.
Girò la chiave e, non appena il motore ruggì dentro il cofano, diede gas e si allontanò di corsa.
Mentre lasciava la città, fu pervaso da un’ilarità sinistra.
Era euforico!
Era successo qualcosa che non avrebbe mai immaginato fino alla mattina precedente.
E si sentiva…sì… felice!
* * *
Si diresse verso il mare.
Da quanto tempo non si fermava sulla spiaggia ad ascoltare le onde rifrangersi sulla battigia?
Anche se era vicino alla costa, aveva considerato anche il mare stesso un nemico, come se il fatto di non averlo invitato ad ammirare il tramonto dalla sua riva, fosse una sua colpa. Non si era potuto permettere una casa presso il lido? Era colpa del mondo. L’intero universo che ce l’aveva con lui!
Mentre percorreva la litoranea con quella macchina rubata al suo amico, cercò di razionalizzare quella strana sensazione di benessere di cui era stato pervaso poco prima.
Pensò a quanto era successo.
Era stato cacciato da un negozio di liquori perché aveva preso in prestito una bottiglia che non aveva fatto in tempo a scolarsi neanche a metà.
Forse più per superficialità che per rabbia l’aveva gettata sulla saracinesca dando fuoco alla vetrina.
Si era fermato a guardare l’incendio poco distante, finché non erano giunti i pompieri.
Quando era passato davanti alla casa di quell’infame aveva usato il massimo segno di spregio per disprezzare quello che incarnava quell’uomo.
E poi gli aveva preso la sua bella auto.
Che cosa avevano in comune tutte queste cose?
Ma certo!
Oltre a essere degli istanti liberatori per lui, nessuno l’aveva visto!
A parte il momento in cui il commerciante l’aveva beccato a trangugiare alcool nel suo negozio, nessuno poteva associare a lui l’incendio, l’atto di vandalismo o il furto d’auto! Mentre il fuoco devastava il locale, lui era a pochi passi e l’esercente non aveva denunciato nulla!
Sorrise.
Fino a pochi attimi prima avrebbe desiderato chiudere quella vita senza senso.
Ora no.
* * *
Stava viaggiando lungo il litorale. Si ricordò che proprio in quella zona abitava il suo vecchio capo. Lui sì che si poteva permettere una casa ove le camere erano invase di profumo di salsedine e tamerici portato dal vento.
Girò proprio verso la stradina che conduceva alla sua residenza.
Un muro bianco e alto proteggeva la villa. Dalla sommità della recinzione spiccavano ciuffi di palme che promettevano serenità e benessere.
Rimase qualche minuto a rimuginare. Finché il portone non si aprì e uscì un uomo che tirava con sé una bicicletta. Si girò per chiudere il cancelletto e inforcò il mezzo, avviandosi lentamente verso il paese.
L’altro sull’automobile aguzzò la vista, stringendo a sua volta il voltante con cattiveria.
Era lui!
Fu un lampo.
Ruotò la chiave nel cruscotto e premette l’acceleratore a tavoletta.
L’altro si girò, più per il rumore del motore su di giri che per paura.
Non fece in tempo a sgranare gli occhi per il terrore, che la macchina era su di lui!
Il corpo venne proiettato alcune decine di metri più avanti.
Il guidatore assassino vide che l’altro alzava la testa e accelerò ancora per raggiungerlo e schiacciarlo. L’auto ebbe un sobbalzo e poi frenò dopo pochi passi. L’autista si guardò alle spalle. Pur non vedendo alcun movimento, fece marcia indietro e pigiò sull’acceleratore con la stessa veemenza di prima!
Questa volta la macchina provò a impennarsi per il salto.
L’uomo al volante rimase fermo qualche secondo per ascoltare il silenzio della morte.
Poi innestò la marcia in avanti e passò accanto al cadavere, come estremo disprezzo per il ruolo che quel pover’uomo aveva incarnato in vita.
* * *
Dall’altura sabbiosa il mare sembrava una coperta che vuole proteggere la terra col proprio abbraccio, ricamato di pizzi schiumosi.
L’uomo era alla sommità e ammirava sconcertato quel miracolo.
Era stata una giornata incredibile.
Aveva rubato, aveva commesso atti di vandalismo, aveva incendiato, aveva persino ucciso!
E nessuno avrebbe potuto ricondurre a lui alcuno di questi crimini.
Anzi, sarebbe potuto capitare esattamente il contrario.
L’omicidio del suo capo avrebbe potuto essere imputato al suo ex-amico.
Ecco come era nata quella volontà assassina!
Dalla consapevolezza dell’impunità, da un delirio di onnipotenza, dalla gioia di modificare il corso degli eventi con atti di portata assoluta.
Si chiese se non avrebbe dovuto essere afflitto da un senso di colpa. La coscienza non avrebbe dovuto frenare la spirale di malvagità in cui era caduto? Il rimorso l’avrebbe assalito dopo qualche giorno?
No.
Quello che aveva fatto non solo gli era piaciuto, ma era servito anche a riscattare il suo senso di inutilità.
Era la potenza stessa di quanto aveva eseguito ad averlo esaltato.
Una forza che era commisurata all’immortalità stessa!
* * *
Stava ammirando la spiaggia deserta e il miracolo di quella natura possente, come se fosse in grado di dominarla, quando vide una ragazza che stava correndo sotto sulla battigia.
Probabilmente era una di quelle fanatiche del jogging che abitavano in una delle tante case isolate per ricchi.
Un luccichio brillò nei suoi occhi.
Scese morbidamente dalla collinetta, pregustando un pensiero morboso che aveva attraversato la sua mente. Un piacere impuro che non aveva ancora sperimentato, ma che ora sentiva di potersi permettere.
Le dune irregolari nascondevano la vista alla ragazza, che stava tagliando longitudinalmente la distesa di sabbia bianca. Appena fu al livello del mare, l’uomo fu assordato dal fragore delle onde. Respirò a pieni polmoni la potenza di quell’acqua che si vaporizzava in milioni di particelle di purezza.
L’uomo camminò lento e sicuro, persuaso di poter possedere quel candore.
Da un cespuglio osservò la donna che si avvicinava. Era giovane, bella, formosa. L’ondeggiare sinuoso delle sue curve, al ritmo della sua corsa, rendeva ancora più seducente quel piacere proibito.
Si chinò e ammirò il sole che stava scendendo all’orizzonte. Presto anche l’astro, insieme alla notte, avrebbe protetto il suo ultimo peccato, complice di un appagamento più intenso e profondo.
La ragazza si stava avvicinando al suo nascondiglio. Sarebbe finita direttamente nelle mani del lupo. Un animale ferito che fino a qualche giorno prima tutti avevano trattato come una bestia appestata!
Appena la donna superò la duna, l’uomo intercettò la sua traiettoria. Fece un balzo alle sue spalle e la cinse con entrambe le braccia. Lei si divincolò. Per un attimo gli parve che lei stesse per sfuggirgli, ma poi la brandì per i capelli e la scaraventò a terra.
E in un attimo fu subito buio!
* * *
«Dove sono?» chiese nella confusione dello stordimento.
«In un posto sicuro, dove nessuno può trovarti» rispose la voce.
Il locale sembrava un capanno da pesca, rivestito di un legno fradicio e marcio.
In lontananza si udiva il palpitare riposante del mare.
Dal soffitto pendeva una lampadina che oscillava al ritmo del vento, il quale spirava sottile dalle assi impregnate di sabbia e salsedine.
«Che cosa ci faccio qui? Che cosa è successo?»
La testa rimbombava. Un sapore dolce come il sangue colava dalla testa fino alla sua bocca. Ma il dolore più forte era al basso ventre.
Abbassò lo sguardo e vide i propri genitali scoperti e avvolti di sangue.
Accanto alla sedia su cui era legato, un tavolo coperto di coltelli di tutte le fogge.
Durante un’oscillazione maldestra, la lampada illuminò di taglio il volto della ragazza che faceva jogging. Aveva un paio di forbici in mano.
«Tu hai violentato e ucciso mia sorella! Ora ti farò vedere che cosa vuol dire soffrire!»
L’uomo allargò le pupille inorridito.
«Ti sbagli! Non so di che cosa stai parlando!» sbraitò.
«Ma certo! Tu non sei lo stupratore della spiaggia, che ha già fatto fuori tre povere ragazze indifese. Tu mi sei saltato addosso solo per salutarmi!» lo schernì, avvicinando la lama a uno dei suoi occhi.
«Ti giuro! Io…È la prima volta che vengo qui…»
«Sicuramente sarà l’ultima!»
MOTIVAZIONE : Il protagonista è un uomo, un perdente, uno come ce ne sono tanti. I momenti salienti di una tragica vendetta, scatenata da un diniego, evocati con uno stile narrativo serrato e incalzante che fa – nella lettura – trattenere il fiato e scorrere gli occhi sul foglio fino al tragico, ineluttabile epilogo che ricorda, ad ognuno di noi, l’imprevedibilità della vita.
secondo classificato
Le storie scomparse
di Michele Clemente
Era mezzogiorno in punto quando SCURO DIE, lo scudiero fedele con la faccia triste, sellò il cavallo bianco fermo nel cortile.
Il sole picchiava in verticale e l’aria intorno al castello sembrava danzare morbida e vaporosa in una snervante attesa. REPPICIN, il principe, con un balzo si portò in sella, guardò la torre più alta e disse al suo scudiero: – Questa volta andrò da solo, compagno di mille battaglie! Lunga e piena di pericoli sarà la strada che mi porterà ai confini del tempo. Sarai molto più utile qua, al castello: veglierai sulla principessa -.
Il principe tirò con forza le redini a sé. Il cavallo scartò di lato con passo alterno, alzò in aria le zampe anteriori e partì al galoppo.
Una nuvola di polvere investì lo scudiero.
Forse fu lo sguardo di un momento, attraversato da una lacrima, ma dal torrione, al principe sembrò di vedere una mano che salutava.
ASPES era la Principessa più bella del mondo.
Aveva lunghi capelli neri che le scendevano lungo le spalle e nei suoi occhi splendeva il verde del muschio dei boschi.
Amava il canto e la musica, ma la cosa che le piaceva di più era ascoltare le fiabe. Per questo motivo al castello vivevano il vecchio contastorie CHE-VOCI e un paggio.
Tutte le sere, dopo cena, alle nove in punto il contastorie, racchiuso in una lunga veste chiara cucita lungo i fianchi, si sedeva con le gambe incrociate di fronte al grande camino.
Il suo corpo sembrava ballare come ombra di luce di candela.
Con gli occhi chiusi sotto le palpebre rigate, preparava un viaggio nell’Universo delle fiabe e quando ne acchiappava una con la rete dell’iride, sorrideva.
Il paggio GIAGOP che fino a quel momento rimaneva in buffa attesa capiva che era tempo di cominciare: tre saltelli laterali, due capriole davanti al camino, un inchino e uno squillo di trombetta:
ASPES PRINCIPESSA
DOPO LA FRITTURA
E LA RAPA LESSA
ECCO L’AVVENTURA.
In quel preciso istante il vecchio CHE-VOCI riapriva gli occhi e cominciava: C’era una volta…
Così tutte le sere, dopo cena, alle nove in punto!
Quella sera CHE-VOCI si destò dal suo lungo viaggio nell’Universo delle fiabe, riaprì prima gli occhi, poi la bocca e fece per raccontare .!? Nessuna parola sgorgò dalle sue labbra!
Gli occhi improvvisamente strabuzzarono fuori dalle orbite, la bocca spalancò un tunnel di paura, la testa girò di qua e di là:
– Non ricordo più nulla! – balbettò.
GIAGOP smise di saltellare, si appoggiò alla sua espressione da circo e di rimando: – COOOSA!! –
La principessa non riusciva a credere ai suoi occhi.
Si alzò, prese dalle spalle il vecchio contastorie, lo aiutò ad alzarsi e gli disse: – Non fa niente vecchio mio ti tornerà in mente più tardi, adesso puoi raccontare quella di ieri sera e anche se non l’abbiamo mai fatto riascolteremo una fiaba già detta, per una volta non cascherà il mondo –
– Oh mia principessa, non ricordo più nulla, né quella di ieri sera né l’altra di lunedì, ho la mente vuota come un pozzo prosciugato, come un cappello senza testa –
GIAGOP provò a stemperare l’aria piroettandosi come una trottola sul pavimento. Ma ormai era tardi per qualsiasi cosa!
ASPES si ritirò nella sua stanza nella torre più alta, con la testa abbassata e lo sguardo assente. Quella sera in cuor suo giurò di non voler più sentire e vedere niente e nessuno.
Bussava REPPICIN alla porta, a tutte le ore.
– ASPES mia principessa, mia adorata, non voglio vederti soffrire in questo modo; ti prometto che troverò la soluzione ma tu devi aiutarmi, dimmi qualcosa, ti prego –
La principessa rimase da sola in camera, accettando solo the alla pesca, lasciato davanti alla sua porta alle nove di sera!
Tutto il castello era avvolto in un silenzio cotonato e le poche parole sussurrate nei corridoi di pietra dura cadevano come biscotti nel latte.
Bisognava fare qualcosa. Il principe organizzò subito un primo incontro con mamma e papà. La regina sostenne fino in fondo la tesi del malocchio: probabilmente il paggio, dietro lauto compenso da parte dei Reali di fronte, aveva dato al vecchio contastorie una pozione devastante per la memoria (i Reali di fronte rivendicavano vecchi confini, adatti al pascolo..ma questa è un’altra storia). Per la regina qualsiasi sciagura era colpa loro.
Il re dondolava sui no della sua testa e diceva: – Non so, non so… –
Il principe non sapeva cosa fare.
Uscirono dopo una notte intera con il seguente risultato: convocare CHE-VOCI e GIAGOP e dipanare la matassa.
Intanto, come succede nelle situazioni in cui non si sa che pesci pigliare, la tesi del complotto esposta dalla regina prendeva corpo allontanando definitivamente l’ombra del dubbio.
Il vecchio contastorie e il paggio furono ricevuti nella camera dei drappi rossi dove il re esercitava la giustizia.
– Maestà – esclamò riverente GIAGOP
– Veniamo al dunque – cominciò la regina – quanto ti hanno dato? –
Il povero paggio non capiva e il vecchio era sempre più assente.
Alla fine fu emessa la sentenza: entrambi sarebbero stati cacciati dal castello e portati fuori dai confini, nelle terre dei loro mandanti!
La decisione ebbe effetto immediato.
Trovato il colpevole, bisognava infine guarire la principessa.
Fu il re a dire la sua questa volta:
– Chiederemo l’intervento dei saggi e dei medici più bravi del mondo, anche se questo ci costerà una fortuna! –
In men che non si dica fu preparato il bando e diffuso in tutto il circondario, persino nelle terre dei Reali di fronte.
Nel giro di tre giorni al castello si formò una fila di personaggi provenienti da ogni parte del regno.
Ognuno di loro vantava titoli di vario genere e mirabolanti interventi.
Astronomi, astrologi, medici, matematici, mangia-malocchi, saggi e sapienti in genere si alternarono nella stanza ormai aperta della principessa, presidiata in maniera discreta dal fido SCURO DIE.
Nessuno trovava la spiegazione, nessuno individuava la soluzione.
Una mattina sentirono bussare al portone.
Un mendicante coperto di stracci, vecchio e stralunato, con la testa fasciata come una mummia, chiedeva di entrare.
Il re ordinò di cacciarlo via.
Due guardie lo afferrarono per le spalle e sollevandolo senza troppa fatica lo portavano via.
– Principe, solo io posso aiutarti – urlò il mendicante a REPPICCIN.
– Non dargli ascolto – dissero il re e la regina.
– Fermi! – ordinò con voce ferma il principe – portatelo su -.
La regina schiumava rabbia.
Il vecchio coperto di stracci disse:- REPPICIN, se vuoi veramente bene alla principessa ASPES, ascolta questa storia e non far domande. C’è in un regno, molto lontano da qui, un bosco incantato di rara bellezza. E’ abitato da splendide fate che danzano con il tempo su morbidi prati coperti di fiori, dall’alba al tramonto. Le loro danze creano immagini che si compongono e si raccolgono dentro i libri della fantasia. Sono i libri delle fiabe. A sera poi, li aprono e le raccontano alle stelle dell’Universo. Le fate sono le custodi di tutte le fiabe. Laggiù deve essere successo qualcosa, mio principe -.
– Fuori! – sbraitò il re – Questo è troppo…e noi qui a farci prendere in giro da un pezzente. Mettetelo in cella, truffatore, straccione -.
La regina, di rimando: – Mettetelo ai ferri. Imbroglione -.
Questa volta il principe intervenne con forza e con tutto il suo potere di erede al trono:
– Fermi tutti – poi rivolto al mendicante aggiunse – Continuate signore -.
Il re e la regina preferirono lasciare la stanza, con aria indispettita.
– Mio principe – riprese il mendicante – fino a quando non scoprirete quello che è successo alle fate, la principessa resterà muta e triste! –
– Ma tu chi sei? Chi ti manda e come sei venuto a conoscenza di questa storia? –
– Sono solo un povero vecchio straccione e tutto quello che ti ho raccontato l’ho visto in sogno. Conosco i rischi che corro con questa mia affermazione ma so che è l’unica strada per salvare la principessa -.
A quel punto il mendicante rimosse le bende che gli fasciavano la testa ed apparve nel suo vero volto. SCURO DIE che era uno di pochissime parole si lasciò sfuggire: – Tu!? –
Il vecchio contastorie era rientrato nel palazzo.
Superato l’effetto sorpresa REPPICIN gli urlò:
– Come faccio a crederti? Come si può credere a un sogno? –
Ci fu una pausa.
Il principe non sapeva che pensare e per di più non sapeva cosa fare.
Doveva fidarsi?
Improvvisamente cancellò tutte le domande, guardò negli occhi del suo scudiero ed ebbe la certezza di trovare il consenso che cercava:
– Dove si trova questo bosco? –
CHE-VOCI allargò le braccia e, come se fosse il gesto più semplice del mondo, strinse al suo petto il principe piangente.
– Il bosco incantato è a ovest, solo questo so, in fondo ad ovest, ai confini del tempo. Il vento e l’amore ti guideranno. Addio –
Come per magia il vecchio contastorie si dileguò.
– SCURO DIE il mio cavallo, mi raccomando, a mezzogiorno in punto –
Quella mano che salutava dal torrione era sicuramente la dolce mano della sua ASPES.
Bastò quella convinzione a spronarlo e a costringere il povero cavallo ad una galoppata senza fine.
Dopo aver oltrepassato le terre dei Reali di fronte che commossi volentieri gli lasciavano il passaggio, dovette fermarsi presso una vecchia stalla perché il suo cavallo bianco ormai era ridotto ad uno straccio, fisicamente parlando.
Il gran caldo, inoltre, non aiutava certo a compiere lunghi spostamenti.
Decise allora di proseguire di notte e di riposare di giorno.
Galoppava con le tenebre tenendo la stella polare alla sua destra.
Una notte scoppiò un terribile temporale e da quella notte perse anche le stelle sopra il suo cammino. Non sapeva più dove andare.
Ricordò le parole del vecchio contastorie: sempre ad ovest, in fondo ad ovest. Il vento e l’amore ti guideranno! Riprese così fiducia e pensando alla sua amata seguiva la direzione della brezza che gli accarezzava le spalle sudate.
Era un’alba piena di fumi caldi e nebbia quando smontò dal suo cavallo per far riposare entrambi. Intuì sotto i piedi un tappeto d’erba alta e spessa, legò il cavallo, si accovacciò come un neonato e si addormentò.
Quando si svegliò il sole era tornato alto a risplendere nel cielo.
Si alzò, si voltò lentamente poi si girò e rigirò come un fulmine.
Attorno a lui solo alberi: alti, antichi, dalle forme strane, intrecciati.
La luce filtrava appena eppure dal quel bosco evaporavano i colori dell’arcobaleno.
– Eccoti Bosco Incantato! Non so come ho fatto ma ti ho trovato -.
Il principe era contento di essere arrivato ma una sottile paura cresceva dentro di lui.
– E ora? Non ho altre indicazioni se non le fatine. Devo trovarle –
Poi rivolto al cavallo: – Se vuoi aspettami. Non so se tornerò, di sicuro non potresti passare tra quell’intreccio di rami -.
Lo afferrò per le orecchie, lo tirò a sé e lo baciò sul naso.
– Addio amico mio e perdonami se qualche volta ho esagerato -.
Il cavallo bianco si drizzò sulle gambe posteriori e lanciò un nitrito.
REPPICIN avanzava a fatica e alla cieca brandendo il suo spadone e dimenandolo per crearsi un varco. Ogni tanto rialzava la testa, attento a cogliere la situazione.
Gli sembrava di sentire addosso lo sguardo terribile di due occhi di brace.
Non fece in tempo a riflettere che tutta la vegetazione tremò come investita da un terremoto.
La coda potente di un DRAGO sbatteva da una parte e dall’altra e fu solo per caso che REPPICIN non ci lasciò le penne.
Si riparò dietro due tronchi millenari.
Lanciò il suo codone il drago ed ebbe il tempo di pentirsene perché i tronchi millenari oltre all’esperienza accumulano una scorza dura.
La bestia non era di quelle remissive che abbandonano e cambiò strategia. Prese la situazione di petto e azionò il suo lanciafiamme.
Il principe sentiva l’armatura arroventarsi per cui pensò bene di liberarsene e con essa rivestì un tronco mezzo bruciato.
Nascose il suo spadone sotto il terreno umido.
Più libero e più agile cominciò a scappare da una parte e dall’altra per schivare i colpi o meglio le fiamme. Per un attimo il drago con il naso fumante sembrò in difficoltà di fronte a quella tattica, poi raccolse tutta la sua forza e sputò una colata di fuoco avvelenata.
Il tronco e l’armatura si sciolsero come neve allo scirocco.
Il drago guaì felice, rilasciò una smorfia e tirò di naso, poi se ne andò.
REPPICIN si era riparato lontano dalla sua armatura, ma non aveva potuto evitare una serie di laceranti e spiacevoli ustioni sul suo corpo.
Quando pensò che il drago fosse abbastanza lontano cercò di muoversi da quella specie di buca in cui si era precipitato.
Purtroppo il dolore gli impediva ogni movimento.
– Come farò a salvare la principessa? Solo e forse perso per sempre in questo bosco senza uscita -.
Fu in quel momento che egli vide l’aria muoversi attraverso goccioline sospese che si coloravano e tralucevano, a volte assumendo sembianze umane e a volte danzando come vapori acquei.
Indietreggiò di bacino, quasi a difesa delle sue poche forze.
– Non aver paura sono lo SPIRITO DEL BOSCO e sono qui per aiutarti-
REPPICIN a metà tra la paura e la speranza sospirò con soddisfazione.
– Raccogli quelle foglie curve e scavate nelle vene, contengono un liquido appiccicoso; versalo sul tuo corpo ed ungine le ferite in maniera leggera e uniforme –
Il principe eseguì in perfetta successione e modalità …e fu guarito.
– Grazie SPIRITO DEL BOSCO –
– Rilassati e mettiti comodo, chiudi gli occhi e guarda queste immagini –
REPPICIN si predispose anche se non riusciva a capire in che modo si potessero guardare immagini ad occhi chiusi. Sotto le palpebre sbarrate gli apparve un grande libro colorato e le pupille cominciarono a sfogliarlo: le fate cantavano e danzavano in una radura coperta di fiori e ad ogni loro passo immagini su immagini si creavano, si libravano nell’aria per insinuarsi poi tra le pagine di grandi libri appoggiati a terra. Per un attimo il principe rivide la faccia del vecchio contastorie e capì di aver incontrato il sogno di cui parlava. Le fate ripetevano questo rito tutti i giorni dall’alba al tramonto, poi a sera, con la luna alta nel cielo, a turno, aprivano i loro libri per raccontare alle stelle dell’Universo le fiabe appena inventate. Il principe capì tutto: era da lì che il contastorie attingeva i suoi racconti, ecco perché non finivano mai!
Mentre scorrevano le immagini delle fate danzanti, quel cielo si oscurava e dalla boscaglia più fitta arrivava il drago cavalcato con maestria dalla strega GESTAR, la più famosa tra le streghe cattive.
Ogni fata veniva intrappolata in un cerchio di fuoco e separata dal suo libro in modo irraggiungibile. Esse si disperarono e si dimenarono senza produrre alcun risultato, infine caddero in una profonda depressione assumendo la faccia dell’assoluta tristezza e dell’assoluto silenzio.
Per un attimo REPPICIN rivide la faccia della sua amata ASPES.
Il drago infine, usando la coda come una mazza da golf rubava e caricava sul suo groppone tutti i libri sparsi sul prato.
– Sono la regina del silenzio triste e metterò a tacere tutto l’Universo, nessuno potrà mai più infilarsi tra i viali della fantasia – Con una risata, a metà tra ululato e urlo, che potrebbe rabbrividire anche un eschimese, la strega spronò il drago portandosi via il prezioso carico.
– Puoi aprire gli occhi, adesso sai come stanno le cose – disse lo SPIRITO DEL BOSCO movendosi ora come gelatina appesa e informe.
– Cosa devo fare? –
– Ascolta principe: superato questo tratto di bosco intrecciato entrerai nella piazza dei mille viali, solo l’amore per la tua donna potrà indicarti quello che porta al castello di GESTAR. Ci vorrebbero mille anni per percorrerli tutti e nessuno sa qual è quello giusto. Spesso la strega ne cambia la posizione -.
– E poi? –
– Io cercherò di non perderti di vista. Troverai molte trappole lungo il cammino. Non ascoltare le voci che ti chiamano e non fermarti mai, fino all’incontro finale. Ricordati che potrò aiutarti solo un’ultima volta -.
Lo SPIRITO DEL BOSCO evaporò lasciando al suo posto un’aria pulita e profumata.
REPPICIN smosse il fogliame e recuperò il suo spadone ancora tiepido.
Si accorse di non avere più nessuna piaga sul corpo e si sentì perfettamente in forma poi, inginocchiandosi e brandendo la spada infilata nel terreno disse:
– Ti prenderò strega GESTAR, ti prenderò -.
Dopo aver superato a fatica la zona dello stretto intreccio, il principe raggiunse una grande radura. Guardò più avanti e incrociò lo spazio dove le fate accerchiate dal fuoco, con faccia triste e sguardo assente, sostavano immobili come pietrificate.
– Aiutaci principe, siamo le FATE, siamo noi la tua soluzione. Vieni avvicinati – sembravano dire – non aver paura, siamo la tua speranza e la tua salvezza –
Per un attimo REPPICIN, quasi commosso e allo stesso tempo felice, pensò di lanciarsi a liberarle, ma ricordò quello che gli aveva detto lo SPIRITO DEL BOSCO.
Si ritrasse e volse lo sguardo altrove dando definitivamente le spalle alle fate. Lasciò la radura circondato da un mare di tristezza e da voci supplicanti. Attraversò il prato dei rossi cespugli e si trovò in una specie di grande piazza circolare dalla quale a raggiera si dipartivano i mille viali. Una sola possibilità su mille!
Il principe sedette nel centro della piazza.
Girava lentamente con il corpo e con lo sguardo in una ricerca disperata, quando una folata di vento riaprì completamente i suoi occhi.
Scosse la testa come per controllare di essere sveglio e guardò il viale di fronte.
Per un attimo gli sembrò di scorgere un raggio verde ed era lo stesso verde degli occhi di ASPES.
– Il vento e l’amore ti guideranno! –
Il viale scelto era costeggiato da grandi alberi, nudi e freddi come scheletri grigi.
Capì allora di essere sulla strada giusta.
Nel castello della strega il controllo della situazione nel bosco incantato era affidato alla grande sfera di cristallo, rotante su un trespolo di legno.
GESTAR non se ne preoccupava molto dopo aver avuto la conferma dal drago della fine di REPPICIN, per cui fu per lei una vera sorpresa vedere nella sfera rotante il principe sul viale del suo castello.
– Brutto drago incompetente e bugiardo con te farò i conti più tardi. E’ destino di strega occuparsi in prima persona dei guai grossi –
Appena GESTAR si lasciò il portone alle spalle il drago pensò bene di darsela ad ali per volare il più lontano possibile.
Mentre scendeva i 300 scalini che portavano al viale la strega, che si sentiva particolarmente affaticata in quei giorni, pensò di scegliere l’astuzia alla forza.
Intanto il principe avanzava verso il castello.
Arrivato alla scalinata vide, poggiata su un fiore viola, una farfalla dai cento colori che attirò la sua attenzione. Le posò lo sguardo per un solo istante ma quello rimase appiccicato alla farfalla, la quale subito si levò in volo. Un volo a spirale che dal largo raggio stringeva al centro.
Seguivano le pupille il volo atipico, rotolando nella loro sede come trottole impazzite.
Quando fu abbastanza vicina alle narici di REPPICIN la farfalla fermò il suo volo e vi soffiò all’interno.
Il principe ipnotizzato cadde a terra come un pezzo di legno.
– Verrò a prenderti dopodomani, all’alba del mio nuovo Regno, ora sono troppo stanca, ho bisogno di dormire. Addio principe, mio ultimo ostacolo -.
Detto questo e trasmigrando in pipistrello, la strega tornò al castello.
Quando REPPICIN riaprì gli occhi, tremava per il freddo e la sua testa scoppiava di dolore.
Serrò i denti e con uno sforzo si rotolò un metro più in là.
Vide di nuovo quell’aria che si muoveva, come in un miraggio.
Lo SPIRITO DEL BOSCO era tornato e gli aveva salvato la vita.
– Grazie amico mio, senza di te sarei già finito –
– Ci aiutiamo a vicenda – rispose, assumendo sembianza di stella cadente- entrambi vogliamo mettere le cose a posto e ritornare a prima. Non possiamo permetterci di affogare nella tristezza del silenzio, dobbiamo impedire che una strega malvagia solchi l’Universo con la sua risata impedendo il passaggio alla fantasia.
Lo SPIRITO DEL BOSCO diventò freccia e si infilò nell’apertura di un tronco cavo e dall’interno chiamò il principe:
– Vieni, infila il tuo braccio e prendi ciò che c’è –
REPPICIN strisciò a fatica, come un pesce sceso a terra ed arrivò al tronco cavo, si appoggiò e vi infilò il braccio destro.
Quando la mano ritornò fuori le sue dita stringevano una minuscola chiave d’oro, legata ad un cordino umido e sporco.
– Mettila al collo. La chiave magica può essere usata una sola volta e questa mi sembra quella giusta. Domani il SOLE e la LUNA inizieranno una strana caccia: ognuno cercherà di catturare l’altro fino a quando diventeranno una sola cosa, preda e cacciatore. In quel preciso momento la strega perderà per pochissimi istanti tutti i suoi poteri. Solo allora l’affronterai. Addio e buona fortuna. Io non potrò più aiutarti e dovrai cavartela da solo. Un’ultima cosa, l’attesa del momento migliore sarà lunga e difficile, i tuoi occhi vedranno cose mai viste …ecco, non aver paura –
Detto fatto, balenò lontano.
REPPICIN di lì a poco cadde in un sonno pesante e inevitabile.
Il sole era già alto allorché si svegliò e non gli sembrò diverso dagli altri giorni. Poi voltò lo sguardo e appena più in là vide una luna piena e grigia sostare leggera nel cielo …e questo non era affatto normale!
Salì le scale strisciando lungo la murata per non essere visto e raggiunse il castello. Il principe conosceva bene i castelli e non gli fu difficile individuare la camera della strega.
Adesso poteva vederla muoversi con passo lento e stanco, sentire il respiro che arrancava e maledire il drago scappato. Rialzò gli occhi al cielo, vide il sole e la luna danzare come due palloni che si attirano, puntarsi con fare minaccioso. La luce e le tenebre si scambiavano colpi proibiti.
Si sentiva GESTAR sbattere contro i pentoloni appesi, urlare e lanciare minacce.
Un vento di burrasca investì il castello.
Le mura cominciarono a perdere pezzi.
REPPICIN sapeva di non dovere aver paura, ma la paura sceglie da sola le strade migliori per arrivare al cervello!
Allora pensò intensamente alla sua principessa.
Con gli occhi nascosti dentro le mani controllava, attraverso le dita, quello strano gioco tra luce e buio. Infine il sole e la luna divennero una sola cosa.
Il vento improvvisamente tacque e la luce si irradiò con un unico raggio nella camera della strega.
REPPICIN sfilò dal collo la chiave d’oro e la lanciò contro la strega barcollante.
Per un attimo il braccio sembrò rallentare nella sua rotazione e al principe parve di vedere la bocca di GESTAR aprirsi in un urlo pauroso e maledetto.
La chiave attraversò lo spazio che li separava e si infilò nella gola spalancata della strega.
Ci fu un botto, poi una nuvola di fumo nero e poi più niente.
La strega era evaporata.
Il principe fece in tempo a vedere i grandi libri delle fiabe alzarsi in volo e dirigersi verso sud poco prima che il castello crollasse. Velocemente raggiunse il fondo della scalinata dove ritrovò il suo cavallo bianco, anche se non capì mai come ci fosse arrivato.
Percorse il viale a ritroso galoppando nel vento.
Quando passò nella radura vide le FATE danzare, come le aveva viste nelle immagini, belle e felici con i loro libroni.
Spronò il cavallo e puntò dritto verso casa.
Non vedeva l’ora di portare la notizia.
Arrivò al castello in una fredda e umida sera.
Nessuno ad attenderlo e ad accoglierlo.
Alzò la testa verso il torrione della principessa e vide l’inconfondibile luce della legna che arde nel camino. Salì gli scalini, tre alla volta, come quando era ragazzo.
Con il fiato grosso e con il cuore in gola arrivò infine davanti alla stanza della sua amata.
La porta era socchiusa.
Infilò la testa.
Vide ASPES, bella come un fiore di campo in primavera, attenta alle parole di CHE-VOCI mentre GIAGOP, pieno di campanelli e insaccato in un vestito coloratissimo, compiva salti mortali davanti al fuoco. Sull’altro lato del camino, di spalle, sedevano il RE e la REGINA.
MOTIVAZIONE: Dove nasce la fantasia? Chi scrive i libri di fiabe? Un racconto in cui la narrazione si dipana come nelle più classiche delle fiabe, rispettandone ruoli e funzioni. Eppure, nei nomi anagrammati di personaggi fantasiosi, nello stile narrativo a volte sbrigativo ma mai sciatto, nei luoghi inverosimili si coglie qua e là una innegabile modernità che rendono il testo adatto a bambini e adulti.
terzo classificato ex equo
Un pesce fuor d’acqua
di Andreina Moretti
Amo gli odori, amo i profumi, annuso la vita, gli istanti e le persone amate…
Aspiro i ricordi e vago con la mente, tornando a quei momenti che restano impressi nell’anima, e che ancora oggi ci donano un tuffo frenetico al cuore, i brividi sulla pelle e lo stesso vuoto nello stomaco.
Quante volte un odore ha riportato alla mente dei vecchi ricordi, degli istanti indimenticati? Smisurate quantità di volte…ecco perché mi sento custode degli aromi, delle fragranze, dei profumi, perché sono pezzi di vita, immagini confuse e frammentarie di storie che si intrecciano, si annodano e si sciolgono: come la vita, gli amori, le amicizie, i rapporti umani, gli incontri…gli scontri, le liti e le riappacificazioni…i tradimenti e gli abbandoni. Una quantità enorme di ricordi, esperienze, sentieri, dolori, gioie e tanto odore di vita.
Io vivo. Io esisto. Io sono il silenzio. Sono una donna di mare e dal mare traggo la mia forza. Da quell’ammasso nervoso e confuso di cielo e di alghe…confuso quanto me! Sono impetuosa come le onde schiumose e spettinate, che mi scorrono nelle vene e poi una calma bonaccia quando riposo tra le braccia del mio amore più grande. E ’in questo silenzio dell’anima annuso la vita, il mare, l’amore.
Sono grata alla vita che pur matrigna e amara, mi ha insegnato ad amare: ad amare contro ogni ragione, contro corrente e senza senso. Amo anche quando non sono riamata e poi mi tuffo nel blu di questo mare che ingoia la mia delusione, mentre con lo sguardo ambisco alla terra ferma.
“Mi sento sirena nell’azzurro d’incanto, mi sento conchiglia nel fondo del mare, un alga tra scogli e maree.” (Cit Andreina Moretti) Sono una donna che lontana dal mare boccheggia come un pesce fuor d’acqua.
Perdo il mio orizzonte e la mia dimensione quando smarrisco l’azzurro che limita il cielo del mio paese.
Ho avuto una vita mancante, mancante di affetti, di calore, di stima, di amici, di gioia, di benessere, mancante di tutto quello che poteva riempire il mio cuore. Per evitare di essere trascinata via dagli eventi, come una slavina rovinosa, mi sono aggrappata al bello che ho trovato intorno a me e le ho afferrate strette con le mie radici. Il bello della vita è intorno a noi e dentro ogni uomo, purtroppo non ce ne accorgiamo. Il creato è uno splendore, che merita il desiderio di vivere solo per contemplarlo! E poi c’è l’arte, l’amore, l’amicizia, ma anche le esperienze sbagliate e negative sono importanti al fine della nostra formazione.
“Siamo pesci dello stesso mare, io mi sento un temolo che risale la corrente per deporre le uova.”(Cit. Andreina Moretti)
Scrivere poesie mi porta a risalire la corrente, per trovare un riparo per le mie emozioni. Emozionarmi oggi, in un mondo freddo e impersonale, è un vero tesoro prezioso in via di estinzione.
Mi chiamo Stella ed ho sempre pensato di avere dei brutti piedi. Più li osservo e più mi convinco che originariamente dovevano essere una coda con una bella pinna, come i pesci o meglio ancora come le sirene.
Sono una settimina, cioè nata di sette mesi: una prematura. Sona nata, sono sorta, venuta alla luce “prematuramente” quindi prima del tempo: avevo fretta di vedere il mondo!
Mi chiamo Stella, ho il nome di un astro luminoso, sono una bella ragazza ma non brillo perché sono una non udente.
Non è semplice come sembra essere immersi nell’assenza di suoni, non percepire il minimo rumore o il tono della voce. Gli essere umani riescono ad udire ancor prima di nascere, cullati dal grembo materno ascoltano il timbro della amata voce della mamma, la musica… E’ ovvio che non udire dalla nascita significa non poter imitare i suoni; i sordi non sono muti, il loro apparato fonatorio è funzionante ma sono privi della base fondamentale della comunicazione. I bambini imparano a parlare perchè riproducono i suoni che sentono, le parole a cui man mano daranno un significato.
E’ stato terribile sentirmi tagliata fuori dal mondo, dalle sue parole, dai suoi concetti. Le persone intorno a me parlavano, parlavano, parlavano, aprivano la bocca ed emettevano suoni che divenivano parole. Tutto aveva un significato a me sconosciuto. Io non potevo ascoltare neppure la voce della mamma che mi chiamava << Stella…Stella mi senti? Amore girati, guardami…>>
Ho iniziato ad aggrapparmi alle labbra di chi mi parlava, come per scalare una montagna, mi sforzavo di interpretare, ma interpretare che cosa, se non ero in grado di capire nulla?
Ed è accaduto così, senza che io capissi nulla della vita e dei suoni rumori, che mi sono ritrovata sempre più sola, nel silenzio ovattato delle mie orecchie. Non ricevere notizie del mondo non significa essere stupidi, ma non essere informati e non camminare al passo con il mondo. Nessuno voleva perdere del tempo con me, a quel punto i miei occhi divennero le mie orecchie: Ascoltavo con gli occhi. Non ho mai vissuto nel silenzio, io son una ragazza rumorosa, e i miei pensieri provocano rumore, io grido nella mia testa. <<Come pensa un sordo dalla nascita?>>
<< Io penso a colori!>> Il silenzio per me è il buio della non comunicazione. Il mio silenzio non è il silenzio di chi ci sente, è differente ma non è vuoto, è colmo di tante cose. Sono io a dare il giusto valore a ciò che ricolma il mio silenzio: l’amore da colore, sapore, rumore, musica, parole, calore, a tutti i vuoti esistenti. L’assenza di suono non è l’assenza di valori.
Adoro la musica perché ne avverto le vibrazioni che mi attraversano i piedi e si propagano per tutto il corpo. L’emozione più grande della mia vita è stata quella di ascoltare la musica, sdraiata su di un pianoforte. Io stessa divengo uno strumento musicale: meraviglioso! Il mio mondo silenzioso diviene vibrante e sonoro, un tutt’uno con l’universo. Sono parte integrante della vita che mi circonda.
Chi è immerso nell’acqua non parla e non percepisce i suoni, ecco perché ho sempre pensato che l’elemento fondamentale della mi vita fosse l’acqua. Nuoto sott’acqua poi riemergo, respiro e torno giù nel silenzio del mio habitat. Quando mi immergo sono uguale a tutti gli altri, nuoto libera e senza barriere e senza i limiti che la vita mi impone. Nel mare ho affogato la diversità e la disperazione.
Ho incontrato Pietro, è un ragazzo speciale che mi guarda con gli occhi dell’amore, non pensa che io sia stupida e non ride dei suoni gutturali che emetto quando mi sforzo di comunicare, non mi trova sgraziata e inetta. Si immerge nell’acqua del silenzio per me e nuota nell’assenza di suoni. Pietro ha imparato la lingua dei segni e mi ha detto << Io ti amo >>
E’ meraviglioso condividere un sentimento profondo con qualcuno che ti capisce, che ti “ascolta” e ti fa palpitare forte il cuore.
Pietro mi ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere molto << Io sono venuto con te in acqua, mi sono immerso nel tuo mondo silenzioso. Ho condiviso la tua esperienza di silenzio. Immerso nell’ acqua non posso parlare, udire…ma non posso però baciarti. Ora devi essere tu ad emergere e raggiungermi tra le parole da dire, nel mondo dei suoni. >>
Mi ha dedicato una canzone di Jovanotti “Ragazza magica” credo che sia stata pensata per me, leggo le parole e mi sento importante e anche un po’ magica, perché è l’amore a far udire la musica che riempie il mio cuore, la mia mente, e canta le parole che non ho mai pronunciato ma che direi se avessi la capacità per poterlo fare:
RAGAZZA MAGICA
Che gioia la notte, ti ho visto ballare
Poi rider di gusto senza malignità
La gente se vuole sa esser feroce
Sarcastica e cinica e senza pietà
Questa cosa che niente più vale la pena
Di starci a pensare che poi tanto, boh
A me non mi piace, io credo che invece
Il tempo è prezioso, davvero un bel po’
Io quando ti guardo mi basta guardarti
E una bella notizia che porta allegria
Non c’è un paragone, non è che un milione
Di altre notizie, ti portano via
A forza di essere molto informato
So poco di tutto e dimentico di
Guardarti negli occhi, sbloccare i miei blocchi
Alzare il volume e pensare che sì, oh sì
Sei luce di stella, permetti la vita
Qui nel mio pianeta tutto parla di te
Il sangue che brilla, la mia clorofilla
Che scorre nel legno di mille chitarre
Ispiri i poeti, confondi i magneti
Tu sei la mia luna, tu sei la mia dea
Che sale e che scende, si spegne e si accende
Governa gli amori, su e giù la marea
Il mio posto dov’è, il mio posto sei te
La mia ragazza magica
Che lancia in aria il mondo e lo riprende al volo
Trasforma un pomeriggio in un capolavoro
E mi fa stare bene quando io sto con lei
E mi fa stare bene quando io penso a lei
Basta che penso a lei (Lorenzo Cherubini)
MOTIVAZIONE: E’ il racconto autobiografico di una donna che canta la vita attraverso l’amore che ha per il mare, di una donna che “diventa” le sue sinestesie, quelle che le permettono di superare il limite della disabilità e le aprono le porte dell’amore. Non un pesce fuor d’acqua ma un’anima bella, dentro un mondo che a volte non lo è.
terzo classificato ex equo
La clemenza del drago
di Enrico Faraoni
1
Come nere dita rinsecchite fuoriuscite per afferrare una notte tempestosa, le fronde della Quercia Buca in vocabolo Molinaccio ricevettero una visita inaspettata.
Non c’era l’amico di Andy Dufresne in cerca di redenzione come nella famosa scena del cult movie le ali della libertà di Frank Darabont girata in Ohio, ma due ragazzi incazzati che tramavano la stessa rivincita sociale di Morgan Freeman alias Ellis Boyd Redding, nel film.
Nella sceneggiatura del film umbro c’erano Giulia Altini e Nicola Fumanti, due laureati afflitti da lavori precari che oltrepassata la soglia critica dei 30 anni, stavano per “svoltare” e rompere una congiuntura astrale sfavorevole su questioni di economia e famiglia con una soluzione non convenzionale, degna del miglior Einstein.
Nicola avvocato penalista umiliato per anni da quelle prodigiose invenzioni conosciute nel mondo del lavoro come praticantato e stage, aveva individuato “il bug” nel sistema, il punto nevralgico dove fare leva per “produrre” il massimo danno, senza pietà e senza remore.
La guerra per la salvaguardia della dignità personale, richiedeva sempre più ingegnosi artefici per poter stare a galla. Giulia con una laurea a indirizzo artistico e chiamate stagionali al museo di Gualdo Penna per supportare mostre come tutor occasionale di sostegno, dopo molte perplessità si era definitivamente convinta che il rischio di finire nei guai era minimo.
Certo bisognava prestare particolare attenzione alla qualità della recitazione ed era servito un periodo di lunga preparazione prima di salire sul palco e una volta in scena non si poteva più tornare indietro, ma del resto che cosa avevano da perdere bruciando tutti i ponti alle spalle? Continuare a subire le amenità del mondo moderno, per accettare passivamente verdetti che non erano il frutto di scelte personali, non era più tollerabile.
Valle Ombrosa non garantiva più un futuro alle nuove generazioni e la fuga non era un opzione che due persone con un QI superiore alla media potevano accettare di mettere in atto.
Avevano scelto invece di far sentire la loro voce in quel contesto globalizzato BCE che premiava spesso speculatori e mistificatori della verità: era una semplice questione darwiniana di sopravvivenza del più forte o con un correttivo più modernizzato sull’ aforisma di Spencer, del più scaltro.
Tre cose non mancavano mai al comune di Nocera Ombrosa: il vento, la pioggia e una campana che suonava a morto.
In questo caso a “morire” era la verità sulle questioni di fede.
Per rendere il tutto più autentico e plateale la coppia aveva deciso di esordire “in una notte di inverno un temporale“, che suonava poeticamente un pò alla Calvino.
Il pathos non mancava in quella location suggestiva e la quercia di proprietà degli Altini, situata in posizione strategica vicino al bed & breakfast la Casa dell’ Arcobaleno, era un avamposto intrigante per ricevere i doni di Santa Indelicata, visto il terreno accidentato e le atmosfere gotiche con una foschia permanente che poteva scoraggiare eventuali curiosi da visite non autorizzate.
Santa Indelicata non era una entità comoda da gestire e da supplicare solo in giornate calde e temperate. Il maltempo piegava la cima dell’ albero, che durante la seconda guerra mondiale aveva protetto al suo interno più di un partigiano dato la stazza ragguardevole del tronco e salvaguardava ora anche i due dal rischio di denuncie, dal momento che i reati di abuso della credulità popolare, circonvenzione di incapace e truffa (rispettivamente articoli 661, 643 e articolo 640 del codice penale), non potevano essere contestati in assenza di coercizioni se la linea di azione che partiva dalla visione di Santa Indelicata, per giungere fino alla trascrizione del messaggio e quindi a seguire al condizionamento di un bacino target, era congruente a un modus operandi ponderato a tavolino, dove la solidarietà e la gioia e il messaggio salvifico della Santa Locale veniva valorizzato nelle sue componenti benefiche.
Un piano diabolico, articolato e complesso, che prevedeva di superare lo sbarramento critico in una prima fase di startup con il coinvolgimento in buona fede di parenti e amici, che grazie al passaparola in breve tempo avrebbe portato a business rilevanti, come per esempio l’ospitalità da fornire a credenti che volevano cercare il conforto di Santa Indelicata, flussi di denaro che avrebbero salvato la Casa dell’ Arcobaleno da sicuro dissesto, viste le conseguenze del recente terremoto di Amatrice che congelava il turismo sulla fascia centrale appenninica.
Andava costituita una associazione senza fini di lucro che si sarebbe chiamata Fedeli dell’ Arcobaleno di Santa Indelicata, in modo da suggerire l’idea che la Madonna non solo era associata alle bellezze della natura umbra, ma anche alla struttura logistica a supporto che poteva ospitare i pellegrini a caccia di risposte.
L’operazione “Golden Tree” avrebbe avuto ripercussioni positive su tutto l’ indotto dell’ economia locale, dal momento che muoveva idee, uomini e mezzi convertiti in consumi.
I flussi di denaro in entrata sarebbero stati resi trasparenti con un commercialista scrupoloso di fiducia e le donazioni cronologicamente riportate in un registro, per i controlli maniacali che sarebbero seguiti nel tentativo di dimostrare la cattiva fede dei Prescelti.
Regolare fattura sarebbe stata fornita a chi comprava il miracoloso olio locale della Santa che di taumaturgico non aveva nulla, se non il condimento tipico di una eccellenza presente sul territorio, che rendeva piatti variegati unici ed esclusivi.
Si era lavorato molto anche nell’ipotizzare un attacco frontale, portato inevitabilmente dai media a livello nazionale, una volta che dalle parti di Assisi si sarebbero accorti che il poverello locale subiva un decremento di turisti, causato da una improvvisa apparizione in località Molinaccio, che costringeva a deviazioni non autorizzate.
Si era lavorato molto sull’ audio e sui video con l’ausilio di libri tecnici come I Volti della Menzogna di Paul Ekman, con ore e ore di laboratorio per far sparire dei piccoli tic come quello che Nicola, una volta localizzata Santa Indelicata tra le fronde e ricettore passivo del suo messaggio di Misericordia nei Confronti dell’ Umanità, caduto in stato di trance, ostentava a invasive telecamere esterne, con impercettibili movimenti nervosi in prossimità delle narici, che con particolari esercizi di respirazione finalizzati a distendere il corpo, scomparvero.
Era un piano curato in ogni dettaglio. Chi avrebbe scavato nel loro passato per cercare contraddizioni e ambiguità, cosa avrebbe trovato?
Erano anni che servivano con buone azioni di volontariato la comunità locale e andavano a messa tutte le domeniche fin da ragazzi, non avevano nemmeno bisogno di studiare testi religiosi per usare un gergo tecnico in sintonia con l’interlocutore. Come si ripetevano sempre, avrebbero combattuto e vinto, si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei figli e anche se non avevano a sostegno il logo televisivo di un famoso mulino che dispensava biscotti e felicità, c’era pur sempre Casa dell’ Arcobaleno a sottolineare che la loro vita sarebbe stata “soddisfacente” e “dignitosa”.
2
Nicola si prostò nel fango sotto la pioggia scrosciante e iniziò a fissare ipnoticamente il centro del tronco, diventato ormai una presenza magica nella notte. Una luce calda e dirompente prese a scaturire accecando ogni cosa. Giulia cadde a terra usurpata da quella devastante inondazione ricevendo un messaggio salvifico per l’umanità da rendere pubblico. La porta della Speranza si riapriva per dare forza motrice a tutte quelle anime perse che afflitte dai mali del mondo non riuscivano più ad andare avanti, a trovare un senso generale di esistere. Le caratteristiche di quella terra si adattavano perfettamente al diabolico business plan, data la presenza di persone anziane ormai prossime a confrontarsi con la terribile prospettiva di una fine temporale: la paura generava incertezza, l’incertezza richiedeva stabilità e risposte, assicurazione di amore e sollievo che solo il nuovo messaggio di Santa Indelicata si predisponeva ad ottemperare con tutto ciò che di contorno veniva alimentato nel volano virtuoso.
Non facevano niente di male, era tutto regolare, ognuno poteva scegliere a suo piacimento i propri intermediari celesti per intrecciare conversazioni metafisiche da decriptare.
Il codice penale forse aveva un vasto campionario inibitorio legato a droghe e sostanze stupefacenti, ma l’uso di chiaroveggenza celeste non era ancora stato codificato come reato in quanto di natura trascendente e come tale difficilmente circoscrivibile.
3
Ogni tanto si scopriva qualche genio incompreso per la sua epoca e Arnold Schoenberg ebbe molta più fortuna da morto che da vivo.
Trasformando un problema in opportunità -la moglie Mathilde Schoenberg lo tradiva con il loro amico e vicino di casa l’artista Richard Gerstl e finì suicida-, Schoenberg trasfuse tutta la sua rabbia emotiva per la tragedia vissuta in 4 famosi quartetti per archi che non ebbero un grande seguito di critica e l’autore fu bollato come “eretico” nella favolosa Vienna del 1908.
Schoenberg era stato un innovatore, una categoria abbonata a pagare sempre un prezzo alto con la storia. Il suo quartetto numero due iniziava con un aria lenta e melliflua, serena e rilassante, per confluire dopo l’inganno in una schizofrenica cascata di note “scomode” che operavano una rottura con la tradizione.
Le emozioni avevano con Schoenberg un posto in prima fila e le scorribande virtuose degli archi esplosero in tutta la loro deflagrante asimmetria, quando il capitano Ranieri reclamò la sua attenzione sul cellulare.
-La bellezza ci salverà-, dissi alzando il volume del mio Poket Philips da 50 watt.
-Abbassa che ho un co.co.co per te avvincente e remunerativo!-, rispose il Capitano Ranieri con il consueto sarcasmo che trovavo poco divertente, data la mia miserevole paga oraria.
Quando ebbe finito di parlare mi chiesi se come il compositore austriaco sarei riuscito a convertire l’impresa che mi era stata assegnata in successo: ansia da prestazione o il mio naso da segugio avvertiva marciume lontano un miglio, la distanza che separava Colle Mosso da vocabolo Molinaccio?
Una volta il mitico scrittore John Fante alla domanda come si sentiva a fare il mestiere di sceneggiatore rispose in maniera provocatoria: il lavoro più infame del regno di Cristo!
Era parzialmente vero nel senso che negli anni 50 la leggenda di Torricella Peligna intascava grazie alla crescente industria dello Star System hollywoodiano circa 250 dollari alla settimana, che era tanta roba, ma adesso l’espressione si adattava perfettamente alla mia situazione con una variante: era la missione in incognito più infame nel regno di Cristo? La questione riguardava Santa Indelicata, mica pizza e fichi, per dirla con le espressioni romanesche di una mia amica simpaticamente “burina”, che stranamente insegnava Lettere in un liceo di Foligno.
4
Dopo un anno di indagini frammentarie portate avanti dai carabinieri sulla base di indizi volatili e voci prive di riscontri (i ragazzi del Molinaccio che parlavano con la Madonna di Santa Indelicata non avevano mai estorto denaro a nessuno), la curia diocesana era dovuta scendere in campo istituendo un processo con una indagine dal massimo riservo, in cui chiedeva il supporto dei carabinieri di Nocera Ombrosa.
Il problema di fondo era che la gente stava massicciamente iniziando a seguire “il culto della beata del Molinaccio”, una scia di persone umili che accorrevano in loco per pregare, risolvere problemi, chiedere lumi e consigli sulle migliori strategie esistenziali da seguire e magari anche prenotare un posto in paradiso con donazioni potenzialmente sottobanco. Il business era decollato, visto che un’ala del bad e breakfast la Casa dell’ Arcobaleno della famiglia Altini, era stata ampliata per dare supporto logistico ai nuovi fedeli giunti da ogni parte dell’Italia centrale, alla faccia della crisi e del terremoto!
Il Vescovo Florenzi che subodorava uno scandalo, voleva evitare un altra Medjugorie anche perché il Papa era stato chiaro, solo chi seguiva con umiltà Cristo e non presunti veggenti, fattucchiere, cartomanti e santoni viveva nel giusto.
Così senza usufruire dei costi di trasferta perché giocavo in casa mi toccava mimetizzarmi tra i turisti del nuovo culto per studiare da vicino il fenomeno, infiltrarmi nella comunità e portare a galla eventuali anomalie che potevano convalidare l’ipotesi di raggiro!
5
A Torino prima delle famose olimpiadi invernali del 2002 transitando nel sottopassaggio della stazione Porta Nuova non era raro trovare i famosi artisti dei tre campanelli intenti a reclutare clienti di passaggio grazie a un teatrino surreale. Il siparietto serviva a creare un clima di fiducia nell’occasionale avventore, che stimolato dalle vincite facili dei suoi simili non poteva trattenersi dal puntare una innocente banconota sotto una delle tre campane per trovare la famosa pallina a sostegno, salvo poi accertare una volta che la banconota era sparita grazie alla destrezza del manipolatore che portava la pallina altrove, che tutte quelle persone erano l’amico-dell’amico-dell’amico che a fine giornata avrebbero diviso i proventi in percentuale fra tutti i polli in transito.
Carpa ebbe conferma che i due ragazzi la sapevano lunga, quando facendosi portare a ridosso della famosa Quercia Buca dei Miracoli, dopo mesi e mesi di ore di preghiera alla casa dell’arcobaleno a fiducia conquistata con tanto di donazioni elargite dal fondo spese missione della caserma (e tante tante imprecazioni di circostanza per la recitazione che lo vedeva repellente a ogni forma di divinità), la Giulia sussurrando per non disturbare lo state di trance di Nicola aveva risposto alla domanda del Carpa “dove si trova adesso Santa Lapidata? Sta fluttuando?”, con una frase che era un clamoroso epic fail:
Santa Lapidata é ovunque, é una virtuosa di tale potenza che se la vedessi adesso tutta intera e insieme, con un solo sguardo ti farebbe piangere di ricordi nel tempo di un sospiro. Santa Lapidata é ogni cosa! I suoi meravigliosi pensieri brillano nella corteccia degli alberi, il suo sguardo clemente si spinge nel vento e la sua contagiosa vitalità colpisce come un raggio di sole…
Una frase fin troppo famigliare per il sottoscritto grande appassionato di cinema. Per contro c’era da dire che fra tutti gli agenti 007 in missione io ero quanto di meglio potevano sperare le due cavie, data la mia avversione per tutto ciò che riguardava l’istituzione Chiesa.
L’immersione partecipativa alla Malinowski per districare il caso mi aveva portato in associazione alla musica simbolica di Schomberg ad alcune riflessioni critiche sulla società globalizzata.
Era palesemente chiaro che la truffa di per se non solo era indimostrabile, ma anche innocente, in un certo senso ricalcava gli scherzi ludici di quegli studenti toscani che in una calda estate degli anni ottanta avevano rifatto il verso a Modigliani, facendo trovare delle quasi perfette imitazioni di teste stilizzate da attribuire al famoso artista.
Schomberg dopo un po’ che lo ascoltavi portava con le sue atonie dissonanti a situazioni fantasmagoriche che poco avevano a che fare con l’ordine e l’armonia e tanto familiarizzavano invece con le discordanze del mondo moderno.
Fino a che punto potevo onestamente affermare che quei ragazzi impavidi erano degli impostori?
Tesi che non poteva sostenere neanche la rigidità di Mamma Chiesa che basava la bontà dei suoi enunciati su legittimazione arbitrarie e sulla consacrazione di episodi inconfutabili (dal suo punto di vista) come San Paolo convertito sulla via di Damasco. Convertito da Cosa e da Chi?
La chiaroveggenza di Nicola non poteva essere sminuita rispetto alle posizioni canoniche a meno di prove incontrovertibili che tradivano la buona fede dei prescelti. Io la prova me l’ero andata a cercare ma sul rapporto finale consegnato al Capitano Ranieri non ne feci menzione perché mi piaceva pensare che il sistema autorizzato a “gabbare”, poteva a sua volta essere gabbato. La frase che mi era stata sciorinata dalla Giulia era leggermente ritoccata rispetto a una famosa battuta fatta da mago Merlino nel film capolavoro di Borman “Exalibur”, dove uno sbigottito giovane Re Artù non ancora consapevole del proprio destino chiedeva al suo tutore dove si trovasse il drago:
Il drago é ovunque, é una bestia di tale potenza che se tu lo vedessi intero e tutto insieme, con un solo sguardo ti ridurrebbe in cenere nel tempo di un respiro. Il Drago é ogni cosa! Le sue squame brillano nella corteccia degli alberi, il suo ruggire si sente nel vento, e la sua forcuta lingua colpisce come, come…un fulmine!
Era una delle prove concrete che Monsignor Florenzi andava blaterando, ma non venne menzionata nella mia relazione definitiva, dove mi limitavo a sottolineare una serie di vaghe incongruenze legate alla veridicità dei messaggi che non collimavano spesso tra loro, ma senza calcare troppo la mano. La registrazione in cui Giulia parlava in maniera ingannevole di un film che consideravo uno dei più avvincenti della storia cinematografica genere fantasy, fu cancellata e mai consegnata. Se i preti potevano dipingere le loro pareti con libere espressioni creative edulcorate, anche io avevo il diritto di proporre il MIO modello di realtà. Amavo quei due fottuti geni! Lunga vita e prosperità. Era ridicolo: l’azienda del Papa per anni aveva messo il braccio nel vasetto di marmellata e adesso veniva a cercare me, che avevo da sempre un rapporto conflittuale con il loro business, per testimoniare l’esistenza di un reato in cui due ragazzi, calpestati dalla società moderna, ci avevano messo solo un dito in quel recipiente. Si potevano fottere tutti in coro e fortunatamente Nicola e Giulia avevano dimostrato che si poteva fare! Non erano loro “i cinghiali nella vigna del Signore”, parafrasando una famosa bolla del 1520 stilata da Papa Leone X contro Lutero.
Il Vescovo di Nocera Ombrosa si poteva s-t-r-a-fottere!
I ragazzi avevano tutta la mia CLEMENZA e anche quella del DRAGO di Borman.
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ll vescovo Florenzi responsabile spirituale della diocesi di Nocera Ombrosa dopo aver preso atto con il lavoro del capitano Ranieri che le attività della Casa dell’ Arcobaleno non erano perseguibili a norma di legge per mancanza di riscontri oggettivi legati a plagio o abuso o truffa, una volta che il fisco aveva verificato la trasparenza delle ricevute di casa Arcobaleno inoltrate dai due veggenti al commercialista, scavato senza risultati su una serie di testimonianze prive elementi utili per una denuncia formale, non poteva fare altro che inoltrare la documentazione a Roma, dove cardinal Anastasi si era dovuto consultare con il Papa che era stato molto chiaro in proposito: “prevenire era meglio che curare, quei due avrebbero continuato a fare danni sul territorio, per cui bisognava darci un taglio”.
L’insurrezione del Molinaccio andava sedata e lo si poteva fare senza spargimenti di sangue cercando il bicchiere mezzo pieno. In fondo i due ragazzi volevano sposarsi. Bene! La famiglia era al centro degli interessi della religione e della politica di stato e dare una spintarella per sistemare due giovani che non avrebbero creato problemi e diffuso con il loro esempio il messaggio di Cristo era qualcosa che tornava utile a tutti i fedeli e fagocitava la causa delle cose buone e giuste!
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Una volta giunta in via del Corso da stazione Termini, Giulia aveva trascinato il suo troll fino alla basilica di Santa Maria del Popolo, dove finalmente poteva ammirare l’ opera di Caravaggio realizzata nel 1601 e denominata Conversione di san Paolo.
Era un olio su tela di dimensioni 230×175 centimetri inquietante.
La stratificazione di nero usata come sfondo non solo esaltava le dimensioni plastiche dei protagonisti, in particolare un cavallo che catturava spazio diventando imponente, ma amplificava il simbolismo iconografico della luce accecante che scaraventava il santo a terra impotente di fronte alla sopraggiunta rivelazione.
Era un opera maestosa fatta di tenebre, ma anche di luce, che obbligava Paolo alla conversione e che gli ordinava di desistere dal perseguitarlo e di diventare suo ministro e testimone.
Presenti nella scena un vecchio e un cavallo, il quale, grazie all’intervento divino, alzava lo zoccolo per non calpestare Paolo. Opera meravigliosa come tutta Roma del resto e adesso si trattava solo di raccogliere quanto seminato tornando a recuperare quei suggerimenti privati che sua Maestà Florenzi aveva caldamente espresso, per far capire con toni benevoli in udienza privata che quella sceneggiata di Santa Indelicata doveva terminare:
–Non senza qualcosa in cambio, ci mancherebbe. Sappiamo che volete sposarvi così penseremo NOI a sistemare le cose, primo fra tutti un buon lavoro e una casa adeguata-, aveva detto monsignore.
Trascurando lo sguardo anonimo di un turista giapponese arruolato da Cardinal Anastasi per tenere d’occhio il movimento del nemico e sincerarsi che non ci sarebbero stati altri colpi di testa, Giulia vide Nicola correre sulle scalinate della chiesa. Aveva da poco “staccato” dal lavoro ed era fresco come una rosa, dal momento che in piazza Madama svolgeva il compito prestigioso di usciere per sei ore al giorno e contratto a tempo indeterminato e retribuito con lo stipendio base di 7.500 euro mensili.
Se era deluso perché come avvocato non era riuscito a realizzare se stesso con una carriera all’altezza delle sue aspettative?
Era irrilevante! Il lavoro era facile e remunerativo e anche le cause caffè abbondanti, per farsi licenziare avrebbe dovuto fare qualche cazzata plateale del tipo lanciare qualche martello addosso ai senatori, ma anche se resisteva alla tentazione di farlo, i vantaggi acquisiti dall’operazione “golden tree” come aveva sperato, portavano a un successo totale e ora si trattava solo di raccogliere mesi e mesi di duro lavoro con Santa Indelicata.
Il Cardinale Anastasi aveva recuperato un alloggio di 120 metri quadri in zona Ponte Milvio da consegnare ai ragazzi in cambio di un affitto simbolico che non superava i 500 euri al mese e un sacco di spazi vuoti da riempire in prospettiva con tanti piccoli rompi-rompi.
Non era mancato il regalo di nozze.
Il papa di Giulia cassaintegrato alla Merlini, la nota azienda in località Colle Mosso che produceva elettrodomestici e che negli anni ottanta aveva portato fertilità a tutta la vallata, avrebbe continuato a tenere in piedi la Casa dell’ Arcobaleno, accogliendo nominativi dei sostenitori di San Francesco segnalati scrupolosamente dalla curia romana.
C’era stato uno scambio di favori: il cimelio dove Santa Indelicata compariva e scompariva su ordinazione a orari prestabiliti con un magico telecomando venne sradicato, con la motivazione che ormai le chiome secolari della mitica Quercia Buca erano state irrimediabilmente attaccate dai parassiti, cosa che venne realizzata a tempo di record.
Lui la baciò come in un famoso quadro di Klimt e poi estrasse un bellissimo anello incastonato da pietre preziose mentre un tramonto carico di promesse accarezzava Roma. –Vuoi sposarmi?-, chiese infine.
Lei pianse e lo abbracciò.
Non era vero che si veniva al mondo solo per soffrire ed espiare le colpe di Cristo.
Santa Indelicata e quel tizio che sapeva il fatto suo e che sapevano essere sin dall’inizio del suo arrivo a Casa Arcobaleno un miscredente infiltrato con tanto di patentino da investigatore, erano stati CLEMENTI e ora anche il turista giapponese che studiava la scena coperto a debita distanza dalla folla, rispondendo sul mobile a Cardinale Anastasi che cercava aggiornamenti definitivi, disse:
-Sembrano felici. Non creeranno altri problemi.-
MOTIVAZIONE: Una truffa/non truffa pensata e messa in atto per realizzare un progetto di vita altrimenti impossibile… una forma espressiva leggera e sciolta… una sapiente divisione in paragrafi/scene, permettono di godere di un racconto in cui il sapiente uso di fabula e intreccio presenta situazioni anche divertenti che tengono alta l’attenzione del lettore dall’inizio alla fine del racconto.