Antonio Piazza

INTRODUZIONE
‘IL VECCHIO CHE VOLEVA VEDERE IL MARE’ è il racconto di un breve viaggio tra la realtà e la fantasia. Parte da Konya, splendida città nel centro della Turchia anatolica. Konya, oltre che per la sua storia e per la bellezza dei suoi monumenti e della moschee, è famosa perché legata alla figura di Mevlana, grande mistico fondatore della dottrina Mevlevi, all’interno della religione islamica, avente il fine di diffondere l’amore fra tutti gli esseri umani a mezzo della musica, della danza e della poesia.
La cerimonia dei Mevlevi o Dervisci roteanti è un ‘esperienza affascinante. Consiste in una danza rituale attraverso la quale i partecipanti, aiutati dalla musica, raggiungono uno stato di estasi mistica
I Dervisci sono convinti dell’esistenza di una porta che collega il mondo materiale a quello spirituale. Attraverso i loro rituali, detti ‘Sema’, l’anima degli officianti si eleva fino a raggiungere la comunione con la divinità.
I dervisci entrano indossando una tunica bianca, lunga fino ai piedi e stretta in vita, un largo mantello nero ed un cappello di feltro rosso, alto e a forma di tronco di cono. La cerimonia inizia con un ‘officiante’ che intona una preghiera a Mevlana e un canto tratto dal Corano. Subito dopo risuona un timpano e comincia una melodia suonata col ‘ney’, un flauto di canna. Il maestro s’inchina rivolto ai dervisci che cominciano a muoversi in cerchio intorno alla sala.
Essi fanno tre giri ed al termine del terzo lasciano cadere il mantello nero, a simboleggiare l’allontanamento dagli affanni e dai vincoli terreni.

Una musica, composta da un coro maschile che accompagna una piccola orchestra di strumenti tradizionali (piccoli tamburi, una viola fatta con una zucca ed un ney di canna), segna il momento in cui i dervisci sciolgono le braccia e le aprono. Il braccio destro con il palmo, della mano rivolto verso l’alto, tesa all’unione con Dio e quello sinistro verso il basso, per comunicare le benedizioni del cielo alla terra.
Seguendo il ritmo della musica, che si fa sempre più veloce, i dervisci aumentano la velocità della loro rotazione e raggiungono uno stato d’estasi leggibile dall’espressione del volto.
Mentre ruotano su se stessi formano una composizione che a sua volta compie una lenta rivoluzione.
Nel 1920, con l’avvento di Ataturk, la dottrina di Mevlana fu dichiarata fuorilegge e lo è anche ai giorni nostri ma la sua tradizione, tollerata dalle autorità, continua a vivere.

IL VECCHIO CHE VOLEVA VEDERE IL MARE
“Il mare è come un lago immenso, non se ne vede la fine.”
Il giovane Mehmet, cerca di descrivere al nonno Umit di ottantacinque anni, quel mare che l’anziano aveva sempre sognato e che mai aveva potuto raggiungere.
Non era consueto né facile, negli anni trenta, da Konya, al centro dell’ Anatolia, arrivare alle coste dell’ Akdeniz, il mare bianco, come i turchi hanno ribattezzato il Mediterraneo. Pochi l’avevano visto e ne parlavano con l’orgoglio dei privilegiati agli amici che ne chiedevano tutti i particolari. Fra questi, Mehmet che era appena tornato da Izmir, l’odierna Smime, dove aveva effettuato il servizio di leva nella Marina turca.
“Ho visto il mare soltanto in fotografie, in dipinti; me ne hanno parlato in tanti, viaggiatori, pescatori, abitanti provenienti da città sul mare”, dice l’anziano Umit. “Mi è stato narrato di odore di salsedine, del suo colore sempre diverso, ora verde smeraldo, ora blu cobalto, ora color turchese … del suo continuo mormorare e di navi grandissime. ”
“Un gigante sempre vivo, calmo e rassicurante quando è in quiete, dalle onde enormi e minacciose quando è provocato dai venti di bufera. La sua voce, ora è dolce e carezzevole, ora è ruggente e minacciosa.” Conclude Mehmet.
“Non vorrei morire senza aver visto il mare, senza aver immerso il corpo nelle sue acque, stretto nel suo abbraccio.” Dice Umit
Da Konya, la loro città, la vecchia corriera viaggia verso Antalya, a circa duecentocinquanta chilometri, sulla costa dell’ Akdeniz. Mehmet ha deciso di esaudire il più grande desiderio del nonno. In una valigia ha messo l’occorrente a entrambi per il viaggio; a parte, due tappetini per la preghiera e, protetto in una lunga scatola cilindrica di cuoio, il suo Ney, il flauto di canna.
Una piatta e sterminata distesa di colore ocra, riarsa dal sole estivo, priva di ogni forma di vegetazione, si offre agli occhi di Mehmet e del vecchio.

Incollato al finestrino. sul volto un sorriso appena accennato, Umit immagina ciò che quella piccola, grande avventura gli riserverà al suo arrivo al mare. Vede scorrere la brulla distesa piana che si ripete sempre uguale, a perdita d’occhio.
Mehmet osserva il nonno che guarda assorto quel deserto:
” Il mare è milioni di volte più esteso, puoi vedere le sue acque a perdita d’occhio e le navi trasportano migliaia di passeggeri e li portano lontano … in terre mai viste.”
Poco a poco Umit non vede più il paesaggio: a quella distesa desertica sovrappone il suo mare immaginario che ora solca su di un veloce caicco.
Il ricordo del mare è legato però ai racconti ascoltati qua e là e alla fugace visione di vecchie foto in bianco e nero. La sua fantasia si sforza di dare un colore ai suoi ricordi ma quel mare resta grigio e non lo entusiasma.
Il vento infuocato, che entra dai finestrini per metà abbassati, fa quasi mancare il povero Umit che rientra dal suo viaggio immaginario.
“Yoruldum, sono stanco. Credo di non poter resistere fmo ad Antalya”, dice al nipote. “Dove siamo adesso?”
“Ci troviamo a pochi chilometri da Beysheir, lì c’e un grande lago e potremo ristorarci in qualche chalet sulla sua riva.”
Il paesaggio, impercettibilmente, comincia a mutare. Una bassa vegetazione fa, timida, una prima apparizione; poco dopo ecco un solitario alberello; più avanti, dei campicelli coltivati con cura dentro i recinti di canne intrecciate. L’aria calda adesso si mescola al vento che porta la frescura del lago assieme al suo tipico odore che sa di muschio, di canneti, di acqua stagnante. Questo soffio rianima Umit.
Manca circa un’ora a mezzogiorno, il momento della seconda preghiera. La corriera si arresta vicino al lago ed i passeggeri scendono per una pausa.
Una grande oasi di pioppi, salici piangenti e querce, accoglie i nuovi arrivati. Dei contadini vendono per pochi kurush, pochi centesimi, frutta di tutti i tipi; ragazzini, col tipico vassoio pieno di bicchierini di tè, dalla caratteristica forma a tulipano, richiamano l’attenzione cinguettando: “Ciay, ciay” e fanno la spola tra gli avventori e la ‘Lokanta’, il locale vicino, dove di continuo si prepara il tè ed il ‘kahvè’, il caffè alla turca.
“Ci sediamo a fare uno spuntino?”, chiede al nonno Mehmet.
“Prima portami in riva al lago, non ne ho mai visto di così grandi.”
Il giovane acconsente; con il nonno Umit che si appoggia al bastone, a passi lenti raggiunge la riva. “Il mare è come un lago immenso, non se ne vede la fine.”
Il vecchio gira intorno lo sguardo, inspira profondamente l’aria, forse cercando un profumo diverso, il profumo di salsedine. Appare deluso; gira su se stesso: “Ghidelim! Andiamo!” dice.
Mehmet, avvistato un tavolino all’ombra, vi si dirige adeguando il suo passo a quello lento del nonno. In attesa di venir serviti, il giovane posa la sua mano su quella rugosa di Umit, la carezza con affetto, poi guarda il nonno con un sorriso di complice partecipazione alla sua felicità. Umit risponde allo sguardo del nipote anch’egli con un dolce sorriso che, come spesso avviene alle persone nella tarda età, persiste a lungo sul suo volto prima di spegnersi.
” Merhabà Amgia, buongiorno Zio”, saluta con rispetto un ragazzino, accostandosi col suo vassoio colmo di bicchieri di tè. Senza dire altro, ne posa due sul tavolino e si allontana. Mehmet avvicina al nonno uno dei due bicchieri di tè col piattino sul quale stanno il cucchiaino e due immancabili zollette di zucchero.
Sorbiscono il tè lentamente, poi Mehmet si fa portare due porzioni di kahvaltè, la prima colazione: ‘beyaz peynir’, formaggio bianco, simile alla ‘feta’ greca e ‘siyah zeytin’, ulive nere, con alcune fettine di ‘kizarmish ekmek’, pane tostato, e altro tè da sorseggiare. Immancabile, alla fine, il caffé alla turca.
Un quarto a mezzogiorno. Da lontano, dalla cima del minareto, il Muezzin chiama i fedeli alla moschea. Mehmet lascia delle monete sul tavolino, aiuta il nonno ad alzarsi: “E’ l’ora della preghiera”, dice. Umit assente con un cenno del capo.
Non andranno fino alla moschea, lontana e faticosa da raggiungere a piedi per il vecchio. Scelto un luogo adatto, quasi sulla riva del lago, il giovane distende i tappetini da preghiera, orientandoli in direzione della Mecca. Anche se non è prescritto, quando si prega all’aperto, sia lui sia il nonno si tolgono le calzature per provvedere al lavaggio dei piedi. In vero, è anche un’ occasione per godere del refrigerio che procurerà loro l’immersione delle estremità nell’acqua fresca. I due siedono su di un grosso sasso sulla riva del lago.

Mehmet provvede al lavaggio dei suoi piedi. Poi, sapendo che il vecchio ha difficoltà ad arrivare a toccarsi i suoi, lo previene: “Nonno, lasciate fare a me”.
Quando ha finito, gli asciuga e strofina vigorosamente i piedi per ravvivarne la circolazione. Calzate delle pantofole e raggiunti i tappetini, i due iniziano a pregare.
Il tempo della preghiera è terminato. L’autista suona il clacson per avvertire i passeggeri che si riprende il viaggio. Il mezzo riparte, ma Umit e Mehmet hanno deciso di restare a terra. I due si tratterranno fino al giorno dopo, quando riprenderanno il viaggio verso il mare.
Mehmet per non far affaticare con le scale il nonno affitta una stanza a piano terra dell’unico modesto alberghetto del luogo.
“Volete che vi prepari da mangiare?” chiede il proprietario.
“Adesso è ancora presto, vorrei far riposare mio nonno per un’oretta”.
Umit riposa. Mehmet, che non è per nulla stanco, estrae dalla custodia il suo ney. Ha imparato a suonarlo da suo padre che accompagnava sempre i Dervisci roteanti durante i loro riti e per alcuni anni l’aveva anche sostituito. Va fuori, per non disturbare il sonno del vecchio, e suonando sommessamente si avvia al lago.
Nel sonno-veglia del riposo, forse sollecitato dalle lontane note del ney di Mehmet, Umit ricorda di quando, fino a una decina di anni addietro, egli apparteneva all’Ordine dei Dervisci roteanti ed era un abilissimo danzatore Sufi. Dovette smettere quando il suo ordine religioso fu messo fuori legge.
Mehmet è giunto a metà strada tra la locanda ed il lago. Ormai può dare libero sfogo al suono del suo ney, sicuro di non disturbare il riposo del nonno. Giunto sulla riva, gli sembra di trarre suoni nuovi, mai sentiti né eseguiti prima d’allora, forse suggeriti dalla grande distesa d’acqua. Le sue dita scorrono rapide sulla canna mosse da un impulso esterno, mentre il soffio non è più il suo, sembra davvero l’afflato divino.
La figura di un vecchio appare sull’ingresso della locanda. E’ Umit, che procede lentamente aiutandosi col bastone. Le sue orecchie hanno sentito, anche se appena percettibile, quel richiamo melodioso.

Mentre procede, il suono lo richiama all’antico rito. I suoi piedi iniziano a sciogliersi, ripropongono dei passi di danza a lungo tenuti in letargo; accenna un tentativo di rotazione, goffo, con le braccia che, allargate, sembrano minacciare col bastone.
Lo lascia volare via, sente di non averne bisogno: adesso un impulso vitale gli ha ridato un vigore inusitato e può raggiungere senza impedimento il nipote che, tutt’uno col suo ney, come interpretando i sentimenti dello strumento, si scatena in una esecuzione frenetica.
Umit raggiunge un grosso scoglio piatto sulla riva, vi sale agilmente e, al suono del flauto di Mehmet comincia a ruotare lentamente su se stesso. Assume la rituale posizione delle braccia e della testa e volteggia. Adesso è il lago a girargli intorno. Gli sembra di venire risucchiato da un vortice, per poi rimbalzare in alto. Il ritmo del Ney incalza, lo spinge verso i più alti gradini dell’estasi. L’aria, ricca di profumo di salsedine, gli sferza il viso inebriandolo ed egli s’avvita nell’aria. Lo scoglio diventa un promontorio. Da lassù può ammirare finalmente l’Oceano nella sua interezza. La sua superficie è di un colore mai visto né immaginato prima. Vede le isole dell’ Akdeniz, vicine da poterle toccare, e poi ancora tutto un movimento di imbarcazioni, grandi e piccole.
Il ney ha ceduto intanto il suo ruolo agli strumenti naturali.
Il frusciare del vento, la voce del mare, il verso dei gabbiani si uniscono per comporre una melodia della natura che canta di libertà pura, assoluta.
Il sole, con i suoi riflessi dai bagliori accecanti, lo attira a sé e finalmente, librato senza peso nell’aria, Umit percorre tutto il mare in un volo rapidissimo; e quanto più lui è veloce, tanto più l’oceano s’ingigantisce. Ed egli adesso può abbassarsi fino a sfiorarlo, può far scorrere le dita della mano sulla sua superficie spumeggiante, inebriarsi del suo fragore, inspirare a fondo l’aria intrisa di salsedine.
Non sa Umit quanto tempo è passato. Minuti, ore, forse un’eternità.
Il concerto della natura accenna ad affievolirsi e si fonde col suono del ney di Mehmet che riprende vigore. Umit lo sente: è come un richiamo a rientrare.
Malvolentieri egli dà fine al suo volo e, come una piuma, lentamente si posa sul promontorio.

Onde, gigantesche sembrano voler scalare la rocca in un susseguirsi di assalti. Umit le guarda senza alcun timore e fiducioso, col pensiero, le invita a sé.
La più vigorosa, finalmente, lo raggiunge, rallenta la sua corsa, con un braccio enorme lo avvolge e, come una grande madre premurosa, dolcemente lo trascina via.
Nonno e nipote stanno rientrando alla locanda.
Un bambino ha trovato il bastone che Umit aveva gettato e ci sta giocando, imitando l’incedere dei vecchi. Quando li vede, corre verso di loro e, sollecito, porge a Umit il bastone che riprenderà il suo solito ruolo di sostegno.
“Domani andremo ad Antalya, finalmente vedrai il mare.” Dice Mehmet e, guardando il vecchio, scopre che i suoi occhi risplendono di una luce nuova in un volto trasformato, sereno e dipinto di un lievissimo, persistente sorriso.
“Torniamo a Konya.” Risponde Umit. “Ho già visto il mare.”