di Angela Cimini – PRIMO CLASSIFICATO XVI EDIZIONE 2020
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile restarci tranquilli, soprattutto quando si è adolescenti e si percepisce la realtà circostante – soprattutto se limitata e limitante – come una trappola da cui fuggire.
É con questa riflessione che voglio ricominciare a condividere alcuni frammenti della mia vita con voi, amici del blog. So che è da molto che non scrivo nulla, ma d’altronde – si sa – la scrittura è un po’ come la lettura: ci sono giorni che ti svegli con una sete atavica che si sazia soltanto immergendosi nelle storie di qualcun altro oppure raccontandosi la propria. E col tempo ho capito che in entrambe le azioni c’è un profondo valore terapeutico.
Ci ho messo anni per sentire mio Monteferrante, il piccolo borgo tra le colline abruzzesi dove oggi sono tornata e dove ho scritto pagine indelebili della mia esistenza. Pensare che inizialmente era per me solo il paese dei miei nonni materni, nel quale mi recavo qualche volta nei fine settimana e dove soggiornavo spensierata per un mesetto durante l’estate. E poi quando, all’età di dodici anni, la mia vita è precipitata inaspettatamente – di questo vi parlerò forse un giorno in un altro post -, mi sono ritrovata ad essere affidata da un momento all’altro ai nonni. Se prima il nostro rapporto era semplicemente cordiale e affettuoso, la convivenza forzata e il divario generazionale hanno talvolta portato alla luce il lato peggiore dei nostri caratteri.
Non è stato facile essere nel pieno dell’adolescenza, sentire il mondo scoppiare dentro e fare i conti con regole troppo rigide e con gli angusti spazi del paese, scarsamente popolato da giovani e privo di divertimenti. Per non parlare degli occhi di tutti e cento e rotti i compaesani sempre puntati addosso! Ancora vivo è il ricordo delle levatacce per prendere l’autobus per andare a scuola, anche con condizioni meteo proibitive. E poi se ripenso ad ogni volta che sopraggiungeva il bisogno di acquistare beni non di prima necessità, all’epoca in cui Amazon non era stata nemmeno immaginata: un’impresa! Così come fare visite mediche, andare a trovare le compagne di scuola che vivevano in altri paesi, recarsi al cinema o alle feste.
Come tanti adolescenti, ho contato i giorni che mi separavano dal diploma, per poter finalmente emanciparmi ed andare a vivere nel mondo “vero”. Come sapete, ho scelto di trasferirmi a Torino per frequentare l’università e ho finito per rimanerci a lavorare. Sì, ad intervalli regolari sono sempre ritornata dai nonni e di certo la distanza mi ha aiutata a capirli meglio. Mano a mano mi è sopraggiunta anche un’inevitabile tenerezza nei loro confronti. Mi sono resa conto che, per quanto mi allontani, loro sono per me un punto fermo, il mio Gran Sasso e la mia Majella, massicci, granitici e inamovibili su certi aspetti, ma anche rassicuranti e protettivi sotto altri.
Torino è per me la città del successo lavorativo, delle esperienze, degli stimoli culturali e anche dell’amore. Chi l’avrebbe detto solo qualche anno fa, con tutti i fallimenti sentimentali che mi attiravo dietro e che condividevo con voi, che sarei riuscita a trovare Luca, la famosa “metà della mela” che avevo sempre sognato?!? Ed è così che ho deciso che era arrivato il momento di presentarlo ai nonni, che mi ripetevano in continuazione che avrebbero voluto conoscere soltanto l’uomo della mia vita. Beh, penso che ci siamo proprio!
Il viaggio in auto da Torino a Monteferrante ha fatto riaffiorare in me tutti i pensieri sul mio passato e sul cammino tortuoso che mi ha portata ad essere la donna che sono oggi. In effetti il mio percorso esistenziale finora è stato un po’ come la strada che conduce al paese: dopo il rettilineo iniziale della vallata, ci si immerge in una serie di curve tra poggi e boschi, talora sconnesse e sempre in salita, e poi finalmente, dopo l’ultimo tornante, la bellezza del borgo esplode in tutta la sua dirompenza, così come la mia vita sta esplodendo in questo momento.
Ho avuto un inatteso palpito al cuore quando, dopo un tempo troppo lungo, mi si è parata davanti la fontana monumentale collocata all’ingresso del paese, le cui acque oligominerali sono rinomate in tutto il circondario. Dissetarmi con quell’acqua per me è un po’ come abbeverarmi dell’essenza più profonda delle mie radici abruzzesi. Nelle immediate vicinanze sono stata lieta di constatare che il maestoso abete continua a vegliare, discreta sentinella, su chiunque si approssimi all’abitato.
Non ho potuto poi fare a meno di volgere il mio sguardo immediatamente sulla destra, dove si staglia pittoresco il cuore del paese. Le case più antiche abbarbicate alla roccia è come se dessero la misura della tempra di questo popolo, fiero e coriaceo. Proprio qui c’è una ripida salita, da me percorsa infinite volte a perdifiato, da bambina per gioco e poi crescendo per scappare dalla realtà e rifugiarmi in quello che, giorno dopo giorno, è diventato il mio posto del cuore. Una prepotente voce interna mi ha spinta a chiedere a Luca, ormai prossimo alla nausea, già provato dal lungo viaggio e dall’ultimo tratto stradale tortuoso, di percorrere con l’auto l’erta fino al centro storico.
Qui ho potuto riassaporare la visione dei resti delle mura medievali e del castello, della chiesa di San Giovanni Battista Decollato, coi suoi interni barocchi e soprattutto della bellissima visuale panoramica che si affaccia direttamente sul lago del Sangro, dai più conosciuto come lago di Bomba. Io preferisco il primo nome, che lo rende più universale, patrimonio non di un singolo paese, ma di tutta una vallata, che in esso si specchia e che attraverso di esso sogna e si ristora. Proprio sul belvedere c’è la “mia” panchina, quella che, più di tutti, ha conosciuto i tormenti della mia adolescenza. Continua ad essere lì placida e logorata dall’usura del tempo. Mentre mi perdevo nei miei ricordi nostalgici, ho visto appressarsi l’anziano prete, anche lui provato dallo scorrere degli anni sulla sua pelle, ma sempre aperto all’accoglienza e pronto a scambiare qualche chiacchiera con tutti. Riconoscendomi si è illuminato di un sorriso franco e sincero e ha rievocato con me i tempi passati. Crucciato, mi ha parlato dell’annoso problema dello spopolamento del paese.
– Ci pensi?!? – mi ha detto sconsolato – Sono due anni che qui non viene celebrato un Battesimo!
Dopo questa piccola sosta, abbiamo ripreso l’auto e, poco fuori dal borgo, tra pascoli, cerri, faggi e abeti, finalmente è spuntata fuori, sempre uguale, la vecchia casa dei nonni. Subito ho guardato in direzione dell’albero di ippocastano all’entrata, ancora più alto e rigoglioso di come lo disegnava la mia memoria. Ricordo quando, da bambina, con le mie manine acerbe lo piantai lì con l’aiuto del nonno e da allora è diventato per me il corrispettivo botanico della mia crescita e della mia maturazione.
Tante erano le paure su cui avevo rimuginato durante tutto il viaggio. Temevo che Luca non piacesse ai nonni. So che, quando si tratta di essere schietti, sanno anche essere crudi e diretti.
Come spesso accade, la realtà è più autentica e potente di qualsiasi paura e finisce per prendere pieghe inaspettate. Non mi ha sorpresa affatto trovare i nonni in vigile attesa nell’aia della loro modesta casetta solitaria. I miei occhi si sono soffermati per primi su nonna Romilde, col suo fisico da donnone, il fazzoletto tradizionale sulla testa, un’enorme parannanza a quadri e il suo fare arguto e indagatorio, enfatizzato dalle braccia poste sui fianchi. A lato a lei, appeso ad una rete metallica, c’era in bella vista un coniglio ruspante appena scuioato. Beh, di sicuro non proprio la tenera nonnina di Heidi che Luca aveva immaginato…. In più il quadretto non costituiva affatto il biglietto da visita ottimale per il mio fidanzato, da mesi vegetariano convinto.
Più in là, seduto su un ciocco di legno, c’era nonno Angiolino, col suo rassicurante aspetto arzillo e bonario. Indossava un gilet di lana e l’immancabile coppola in testa, nonostante la temperatura mite ed era tutto intento a intrecciare i bulbi d’aglio per la conservazione invernale. Ai suoi piedi sedeva sonnecchiante il fedele bastardino Ledi, che subito ha incominciato ad abbaiare sospettoso in direzione dell’auto ma, non appena sono scesa e mi ha riconosciuta, ha preso a riempirmi di feste.
Espletate le presentazioni e i saluti di rito, non ci è voluto molto a rompere il ghiaccio. I nonni hanno messo in campo tutta la umile e calorosa cerimoniosità di cui sono capaci, così Luca si è sentito immediatamente a proprio agio. Dal canto suo, il mio fidanzato, che ha perso da tempo i suoi nonni, ha una letterale venerazione per il grande bagaglio di saggezza ed esperienze che le persone anziane possono trasmetterci. Inaspettatamente, pur nella diversità degli idiomi, si è creata un’immediata sintonia tra i miei “vecchi” e Luca.
La natura burlona del nonno non si è smentita neanche in questa occasione: mi ha accolta con la filastrocca scherzosa che mi declama sin da quando ero piccola:
Dora nghi lu cul pesant,
cand mor va a lu campesand.
L’acciupredd je dic la mess
e li port a bballe gne na fess.
Ricordo che inizialmente, data la mia sensibilità ancora immatura, la consideravo offensiva e mettevo il il broncio piccata ogniqualvolta ne sentivo risuonare le parole. Crescendo invece è diventato una sorta di gioco tra me e il nonno e ho imparato a ribattere a mia volta, sempre in maniera scherzosa. Infatti, subito ho replicato rivolgendogli una filastrocca del vasto repertorio popolare abruzzese:
Coccia pelat nghi trenta capill,
tutta la nott ci cand li grill.
Tutta la nott li grill c’ha candat,
bonanott a coccia pelat.
Dopo esserci rinfrancati dal viaggio e dopo aver sistemato le nostre cose nella mia vecchia camera, siamo scesi di sotto. Mentre io ho dato una mano a nonna Romilde per la cena, Luca è stato “rapito” da nonno Angiolino, che lo ha preso sottobraccio e lo ha portato a visitare i suoi amati attrezzi agricoli e il suo orto, intervallando la camminata con i racconti della sua infanzia e della guerra e con il suo vasto repertorio di aneddoti. Nel contempo lo ha aggiornato sul bollettino dei “gossip” di paese, dando per scontato che conoscesse tutto e tutti.
É arrivato il momento della cena. La sincera convivialità abruzzese è in grado, più di ogni altra cosa, di rinverdire e cementare vecchi rapporti e di edificarne di nuovi. Stando con me, Luca era abituato a sentirmi parlare ogni tanto in dialetto, che è anche il canale di comunicazione più immediato tra me e i nonni, ma per le espressioni più colorite e per i termini più desueti mi è toccato vestire i panni dell’interprete.
Quando ci siamo seduti al tavolo della parca sala da pranzo per cenare, con enorme sconcerto di Luca, poggiato al muro, nell’angolo tra lui e il nonno, c’era un fucile da caccia che non aveva per niente l’aria di trovarsi lì per caso. Luca stava già rimuginando che potesse trattarsi di un “velato” avvertimento a lui indirizzato. Nonno Angiolino, capita la situazione, con fare serafico si è rivolto verso di lui dicendogli:
– Ci stà na top che mi vè a rittravuddà l’ort tutti li ser…Ma addò d’ha ij?!? L’aia acchiappà! –
Luca non ha osato chiedere cosa fosse questo misterioso animale che era solito mettere a ferro e fuoco l’orto del nonno e ho visto che ha iniziato a focalizzarsi sul cibo che ci aspettava. Io, ridendo sotto i baffi, l’ho tolto d’impaccio e gli ho spiegato che le lotte senza quartiere del nonno con le talpe andavano avanti da decenni, ma erano sempre le talpe ad avere la meglio.
Come prima portata abbiamo assaporato un abbondante piatto di pizz e foje, ossia un misto di verdure a foglia, lessate e ripassate nel tegame con aglio e olio, e pizza di mais cotta sotto il coppo, un coperchio di latta che si usa per la cottura sotto la brace. Questo piatto è letteralmente il sapore della mia infanzia e il suo gusto diventa ancora più deciso se corredato di sardelle fritte e peperoni secchi. Avevo provato a riprodurlo in qualche occasione, ma si trattava soltanto di sbiaditi ologrammi rispetto all’originale della nonna. Ho visto Luca gradire in maniera particolare il piatto, ma non l’ho visto altrettanto convinto del vino, rigorosamente rosso e della casa, orgoglio del nonno.
Infatti, come fa spesso quando ci rechiamo al ristorante e il vino servito non è gradevole, ha provato a dire timidamente:
– Avreste della gassosa? Non sono abituato a vini così forti… – .
– La gazzos avè scort a la putec. Ci vu mett nu limon che m’ha ripurtat la cummara Giuvinell da la Costiera Marsican ? – ha risposto nonna Romilde.
Luca ha declinato la proposta rassegnato e, dal suo fare cogitabondo, ho capito che si stava interrogando su dove si trovasse questo fantomatico luogo sospeso tra Abruzzo e Campania. Ed ecco che dopo qualche chiacchiera e qualche altro aneddoto di paese, sono arrivate a tavola delle sfere ripassate nel sugo, le famose pallotte cace e ove. Nonna Romilde si è apprestata a riversarne un’abbondante cucchiaiata nel piatto di Luca, il quale, ancora suggestionato dalla precedente immagine del coniglio, ha messo le mani sul piatto e ha provato a bloccarla, temendo contenessero carne. Per tutta risposta nonna Romilde ha asserito stizzita:
– Ma mic è la carn! Quess è le pallott! – .
E nonno Angiolino ha rincarato la dose perentorio, usando una delle sue frasi motto, in rigoroso italiano, per dargli un tono di maggiore solennità:
– Mangia, che un giorno saremo mangiati! –
Così Luca non ha potuto fare altro che buttarsi a capofitto nel piatto, senza ulteriori repliche. E per tutta la sera sul tavolo è continuata la pioggia di salumi, formaggi, caggionetti (piccoli calzoni fritti dolci ripieni di ceci e cioccolata), tarallucci con la marmellata d’uva, bocconotti e altre leccornie locali, come se non ci fosse un domani e, se solo Luca provava a dire qualcosa, prontamente sentiva rispondersi:
– Magn, ca sti tropp sciupat!-
Nonno Angiolino, che come sempre ha gustato con appetito tutta la cena, ad un certo punto si è visto rimproverare da nonna Romilde per i suoi spropositi, che gli ha ricordato che il diabete può essere “domicidiale”, tirando fuori questo neologismo, nato dalla crasi tra i termini “domiciliare” e “micidiale”. Temo proprio sia il frutto delle abbuffate quotidiane di programmi televisivi di approfondimento della cronaca e di salute medica di cui non riesce a fare a meno… Per tutta risposta, nonno Angiolino, infastidito dall’appunto della consorte, si è fiondato incurante su un altro taralluccio. Il sale del loro amore pluridecennale è dato anche da questi siparietti scherzosi e provocatori, all’ordine del giorno, che solo raramente sfociano in litigate autentiche.
Insomma, la cena, oltre che un dejavu sensoriale per le mie papille gustative, è stata un vero spasso. Ho ritrovato il calore familiare che mi era mancato e ho capito davvero che ogni angolo di questa casa e di questo paese parla di me e della mia storia. Non potrei essere la donna che sono senza questi luoghi che hanno costruito la casa della mia anima e soprattutto senza queste fantastiche persone che ne abitano gli interni. Ci sto riflettendo da tanto e ne ho già discusso anche con Luca… I nonni hanno ormai una certa età e, anche se si ostinano ad ostentare forza e indipendenza, tra un po’ avranno bisogno di aiuto. La vita di città non mi soddisfa più e ho capito che non mi rappresenta. Nell’era della comunicazione digitale posso tranquillamente continuare a svolgere il lavoro che ho ottenuto, non senza sacrifici, in smartworking. I tempi sono maturi perché io torni a vivere a Monteferrante, tra la mia natura e la mia gente. Dal canto suo Luca, da sempre vocato alla vita agreste e dotato di un’innata mentalità imprenditoriale, sta pensando di aprire un piccolo agriturismo nella vecchia stalla dei nonni, ormai dismessa. Domani mattina comunicheremo le nostre decisioni a nonno Angiolino e a nonna Romilde, insieme alla notizia che tra pochi mesi diventeranno bisnonni. Questo è l’unico posto dove vorrei veder crescere la creatura che da qualche settimana porto in grembo.