Sez. Racconti – Primo .PHI19

IL PRIGIONIERO

di Sergio Sinesi

“L’imputato MAK IV si alzi!”.

Fortuna avevano evitato di aggiungere che entrava la corte, un po’ di barlume che fa evitare il ridicolo devono averlo da qualche parte. Questi esseri, con quattro braccia e un’enorme coda, scimmiottano mondi diversi senza sapere di cosa parlano. E la condanna che mi daranno non è una loro decisione, ma è pervenuta ieri sera dalla Corte Spaziale Suprema che ha sede nella galassia del Ragno.

Da un mese sono in cella. Un mese su questo pianeta che gira intorno a due soli corrispondono a novanta giorni. Una brevità, un nulla rispetto agli anni che ho e alla vite che ho vissuto.

Mi chiamo Marcus Aurelius Kaufmann IV. E questa è l’unica cosa che so su di me. Sono un tipo poco affidabile: infatti, l’astronave sulla quale viaggiavo è composta da elementi simili a me. Qualcosa in noi non funziona. Qualcosa che il Coordinamento Galattico, Divisione Psicologia Relazionale, addetto al controllo degli esseri viventi nelle tre galassie di nostra pertinenza non riesce a venirne a capo. Ora mi trovo al centro di una galassia nana sottogruppo della galassia di Andromeda. E sul pianeta Kev2 non ci dovevo arrivare.

Le cose sono andate così: premesso che il compito di noi Refrattari è quello di girare continuamente per lo spazio interstellare, valutare situazioni di rischio e ripulire lo spazio da detriti vaganti e pericolosi. In sostanza, siamo una sorta di spie mascherate da spazzini del cosmo. Rintracciato qualsiasi rottame dobbiamo comunicarlo alla base di riferimento e attendere l’ok per la demolizione o il caricamento o traino con la nostra astronave. Se poi “il detrito” è un’astronave aliena, fuori dalle linee astronavali cosmiche, dobbiamo informare la polizia della stazione spaziale più vicina. Tocca a noi fare il primo approccio con esseri che frequentemente non hanno intenzioni pacifiche. Ma questa volta parliamo di un detrito vero, e accade anche che qualcuno debba andare a controllare più da vicino il corpo vagante: è toccato a me sganciare una scialuppa e avvicinarmi a un ferrovecchio grande quanto un asteroide che, andando alla deriva, dirigeva dritto verso Kev1, pianeta simile all’altro ma completamente vuoto; l’impatto avrebbe causato una nube tale da oscurare almeno uno dei due soli. Avevamo avvertito gli abitanti di Kev2, ma quelli ci avevano detto di restare alla larga, che ci avrebbero pensato loro, che l’avrebbero distrutto prima che fosse entrato nella loro atmosfera.

Però noi avevamo l’obbligo di indagare: quel reperto interessava l’Agenzia di Controllo Stock 33, Materiali Eterogenei di Natura Sconosciuta, e non potevamo lasciarlo andare senza sapere a chi era appartenuto e cosa contenesse. Io e un altro siamo partiti all’inseguimento di quel pezzo che stava aumentando sensibilmente la sua velocità attratto dalla forza magnetica del pianeta. Trenta minuti ci bastavano. Non ci siamo mai arrivati. Una pattuglia proveniente da Kev2 ci ha intimato di tornare indietro, in quanto non autorizzati a entrare nel loro spazio aereo, pur spiegando chi eravamo e lo scopo della nostra missione venivamo sollecitati ad allontanarci. Ma mancava poco, il rischio mi attira come una calamita. Non ho ubbidito. Quando hanno incominciato a spararci il mio amico si è lanciato fuori con una mini capsula diretta all’astronave, e io, non pensavo che quelli avessero navi più veloci della mia. Mi hanno circondato e costretto a seguirli. Poco dopo un bagliore improvviso ha illuminato il buio cosmico: avevano fatto saltare quel relitto.

Un mese in una cella grigia e quadrata come la testa di questi esseri. Ho ingurgitato polveri energetiche e carni scipite di chissà quale provenienza. Sapevo che non sarebbero venuti a riprendermi quelli della mia astronave. Ognuno è abbandonato al suo destino, non c’è tempo né interesse a salvare vite. Ognuno deve cavarsela: se riesce a salvarsi da qualsiasi situazione, riprende il suo posto come se nulla fosse accaduto.

Ma da qui non torno più indietro: so qual è il mio destino e ho sottovalutato questi bestioni.

Non ci sono sorprese dalla Corte Spaziale Suprema: nessun eroe, nessuna vita che valga la pena di essere salvata. C’è un Ordine che governa il caos primordiale dell’universo. Tutti apparteniamo a quest’Ordine, tutti apparteniamo all’Impero. Anche questi bestioni che avrebbero dovuto consentirmi di indagare su quel carrozzone vagante. Ma è probabile che le nostre informazioni siano state distrutte al centro dell’Intelligence Cosmica: da quelle parti devono avere qualche amico questi bestioni.

“Imputato MAK IV, glielo ripeto, si alzi!”.

Non c’è processo, c’è solo la sentenza, alla quale l’imputato viene ammesso, ma potrebbero evitarlo. La sceneggiata di un processo come questo è un retaggio di antichissime storie sulla democrazia e il diritto dei popoli. L’Impero lo ha assimilato trasformandolo in una sceneggiata, facendone un finto baluardo del suo sistema di governo, che in sostanza è un pensiero unico. Ma così deve essere. È angosciante constatarlo, ma è così. La quantità di esseri che hanno invaso il cosmo da quando ci si è scoperti vicendevolmente è enorme, darsi delle regole da rispettare ne è stata la conseguenza. Ora quasi ogni pianeta è occupato, se ancora non lo è lo sarà. Esseri viventi su pianeti che ruotano attorno a stelle che implodono vengono lasciati morire, a meno che gli abitanti non siano riusciti a andarsene via prima. Siamo tanti, nessuno è importante, salvo l’Impero. Nessuno sa dove abbia la sua sede, chi sia o cosa sia. Si vocifera sia un cervello enorme, un’intelligenza artificiale situata su una galassia nana della Via Lattea, con quali esseri gestisca il potere non so. So solo che di me sanno tutto; so solo che di tutti sanno tutto. Qualcosa ancora loro sfugge, ma ci stanno arrivando a non farselo sfuggire. Questo qualcosa sono io e quelli come me. Emozioni ancestrali.

Per questo appartengo alla Colonia dei Refrattari: personaggi con qualche tara che vengono utilmente usati dal Sistema anziché esser fatti fuori. Siamo gente senza una casa, senza un pianeta di riferimento, senza una femmina. Viaggiamo continuamente negli spazi interstellari per qualche compito che ci è affidato, alla ricerca di qualcosa, ci fermiamo talvolta nelle stazioni interplanetarie a scambiare parole coi nostri simili, a soddisfare bisogni primigeni, a credere di divertirci.

Il mio nome non è così breve: dopo MAK IV segue un codice alfanumerico che mi identifica, altrimenti sai quanti MAK IV dovrebbero identificare.

Ho 424 anni e sono ancora giovane. Ogni 25 anni i miei organi principali vengono sostituiti. L’anno prossimo è il mio turno. Una placca nel mio cervello manda continuamente segnali sullo stato di salute del mio fisico, qualsiasi anomalia viene registrata e rimossa, se possibile in modo remoto. Il cervello viene sostituito ogni cento anni. Io sono al quarto anno, per questo al mio nome s’aggiunge l’anno di cambiamento. Il nuovo cervello può azzerare completamente la vita precedente oppure riprenderla per dargli continuità. Il Sistema ha già sperimentato che i Refrattari, anche con organi e cervello nuovi, mantengono anomalie ancestrali. Potrebbero eliminarli, ma ne hanno bisogno. Li eliminano solo quando sono irrimediabilmente irrecuperabili. Sono quasi 300 anni che faccio questo mestiere: ho una certa esperienza.

“Per l’ultima volta, imputato MAK IV, si alzi!”.

È divertente vederli irritati, cambiano colore su tutto il corpo in maniera evidente. Questi esseri sono uno specchio continuo di emozioni, comunicano di più coi cambiamenti di pelle che con parole. Io posso comprendere e parlare qualsiasi linguaggio attraversi il cosmo: non so loro come facciano, ma nel mio caso altre chip all’interno del mio corpo attendono a questa funzione. Potrei andare avanti a disobbedire al loro comando, ma sarebbe inutile. Del resto, se non mi alzo non entra la corte, che immagino impaziente in un’altra stanza che attende il via libera. E pensare che non serve a nulla che io stia seduto o in piedi, ma gli schemi mentali ai quali siamo obbligati a sottostare, non sempre appaiono logici a una mente ultima come la mia.

Per quanto tempo ancora posso far finta di non sentire o di non capire? Inutile domandarselo: stanno già arrivando a sollevarmi di peso. Così tra le braccia di due bestioni che insieme a me sembriamo un polipo con tre teste, vedo entrare la corte. Sono in quattro: tre del pianeta e, l’altra, un ufficiale donna del Coordinamento Galattico!

I due bestioni mi abbandonano in malo modo, tale che quasi cado per terra: erano palesemente irritati dal mio comportamento. Sono stupito: perché c’è questa donna? Abitualmente dopo un periodo di indagini – in realtà è il tempo necessario perché la pratica venga a galla – viene inviato un ordine e la sentenza eseguita.

“Imputato MAK IV si sieda!”. Era sempre la stessa voce di prima che mi intimava d’alzarmi.

Ho assistito altre volte a finti processi di altri Refrattari e delinquenti vari, in nessun caso si è mai presentato un giudice del Coordinamento Galattico. E lo stupore lo leggo anche sulla pelle di questi bestioni.

Da parte nostra non c’è stata nessuna mancanza, nessun errore. Sto cercando di fare mente locale, ma abbiamo comunicato tutte le coordinate, tutto sull’avvistamento del relitto. Avevamo avuto il benestare della centrale, la soddisfazione dell’Agenzia di Controllo e l’interesse a non farselo scappare: cos’è che non aveva funzionato? Il Coordinamento dovrebbe condannare questi bestioni e non me. Posso solo pensare che questi abbiano potuto far arrivare informazioni distorte e aver dato la colpa a me della distruzione di quella ferraglia. Qualcuno da qualche parte rendeva dei servigi a questi animali e non era certo un Refrattario. Perché quindi?

“Imputato MAK IV le ordino di sedersi!”

Sì, sì, mi siedo. Stanno già arrivando i due di prima inutilmente. Mi siedo.

“Imputato MAK IV – era quella donna a parlare – fra un attimo le leggerò la sua sentenza: lei conosce le ragioni dell’accusa?

Perché me lo chiede? Non gliene mai fregato a nessuno del parere di un Refrattario. Mi illudo che forse mi salvo. Vado dritto al punto.

– Lo immagino, vostro onore. Ma noi abbiamo svolto secondo le regole il nostro compito. Abbiamo aderito a tutti i canoni di avvicinamento corpi alieni. Può verificarlo con quelli della mia astronave – lo aggiunsi, ma sapevo che questi non lo facevano mai: uno più uno meno, e della mia indole, poi – può anche confrontarlo sul computer di bordo della mia scialuppa.

– La sua scialuppa è andata distrutta nell’incidente che lei ha causato!

Che idiota che ero, dovevo immaginarlo che la mia scialuppa non esisteva più.

– Io non ho causato un bel niente! Sono questi bestioni – vidi in quel momento il colore della loro pelle virare al rosso – che l’hanno distrutta affinché voi non trovaste le prove.

– E perché io dovrei credere a lei, un Refrattario, e non a loro che servono correttamente l’Impero?

Già, perché dovrebbe credere a me?

Nell’istante in cui pronunciò la parola “Refrattario” capii che era stupido continuare. Decisi di restare zitto. Questi sapevano tutto e facevano finta di non sapere. Ci fu qualche minuto di silenzio, nell’aula il brusio dei bestioni che si evidenziava anche con tiepidi cambi di colore della loro pelle, faceva da scenografia a quella recita. Probabilmente stavano aspettando che io dicessi la mia.

– Ma non è questa la ragione per la quale io sono qui, caposquadra MAK IV. – Il brusio di prima diventò più forte, tanto che il solito bestione dovette imporre il silenzio. Anch’io guardai quella donna con maggior attenzione: cosa voleva dire? – La ragione per la quale sono qui è questa!

E tirò fuori da chissà dove un piccolo busto alto più o meno 7-8 centimetri, raffigurante il volto di un uomo dai capelli lunghi e l’espressione accigliata. Io la conoscevo bene perché era mio. Dire che era mio non è reale, perché all’interno dell’Impero non si possiede. Avevo trovato quell’oggetto su un vecchio relitto, un reperto archeologico di un millennio fa circa, che avevamo abbordato facilmente. Mentre svolgevo la perlustrazione su quella nave, mi aveva attratto in maniera istintiva e me lo ero portato via celandolo a tutti gli altri.

– Lei sa cosa rappresenta questo oggetto?

– No, non lo so.

– E allora perché se ne è appropriato? Lei sa qual è il suo dovere, vero?

– Sì, vostro onore.

Restò un attimo in silenzio scrutandomi in malo modo: sicuramente pensava che stessi mentendo.

– Lei ha visto cosa c’è scritto sotto la base?

La base era di marmo. Sotto, con un ferro appuntito, qualcuno aveva scritto una parola, un nome.

– Beethoven.

– Lei vuole dirmi che non sa chi è o chi era questo personaggio?

– No, non lo so.

Ancora si soffermò a scrutarmi nello stesso malo modo. Certamente lei sapeva cosa rappresentava quel busto e avrei tanto voluto saperlo anch’io.

– Imputato MAK IV si alzi! – eravamo giunti a conclusione, ora doveva leggermi la sentenza.

Non capivo, e rimanevo stupito davanti al fatto che questa si era mossa apposta per quel piccolo insignificante reperto. Ma probabilmente sapeva, sapevano, che non lo era per me, seppur inconsciamente, per questo l’avevo preso. Vedendo che non mi alzavo i due bestioni si avvicinarono nuovamente a me sollevandomi di peso, e con le gambe nel vuoto mi lesse la sentenza.

– Oggi, nell’anno di grazia 3018 del 3° Impero Quantico, per i poteri che mi sono conferiti, io giudice dell’Alta Corte dell’Impero, Mary Ann Klinger, condanno il caposquadra MAK IV a morte per decerebrazione. La sentenza ha effetto immediato.

I commenti dei bestioni si levarono immediatamente come liberati da catene e invasero l’aria mentre mi riportavano in cella. La sentenza era una delle peggiori: una sorta di morte lenta; a quanto sapevo durava da uno o due settimane, a seconda della resistenza fisica del condannato. Nell’Impero la decerebrazione significava che tutti i tuoi chip di collegamento al Sistema venivano azzerati. Il cervello regrediva, passando attraverso ciò che si era stati durante tutti quei cambiamenti di stato che ti avevano fatto vivere come un immortale, per arrivare fino alla vita primigenia, fino a quando la tua storia apparteneva alle emozioni. Noi non eravamo più in grado di reggere un simile stato psichico e, nel contempo, la morte avveniva per una sorta di soffocamento emotivo con il corpo che subiva un invecchiamento improvviso.

La mia decerebrazione iniziò poco dopo entrato in cella. Me ne accorsi da un senso di stanchezza fisica che cominciò a invadere tutto il mio corpo. Steso su una branda cominciai a vedere le immagini della mia vita passata come se avessi davanti agli occhi un monitor. Provavo già una tensione mai avuta prima nell’attendere il tempo in cui avrei visto chi ero quando nacqui. Dovevo essere stato sempre un Refrattario perché i primi trecento anni mi parvero tutti uguali. E avevo anche rivisto l’attimo in cui avevo preso quel piccolo busto. Non so quanto ci volle per attraversare tutti quegli anni, ma quando arrivai alle mie origini un singulto, una scarica elettrica, attraversò il mio corpo, dovetti rimettermi seduto, lacrime che non sapevo più d’avere scesero abbondanti. Rividi i miei genitori, rividi i miei giochi, i miei studi, il mio mondo. Io provenivo da un pianeta chiamato Terra. Un pianeta ormai abbandonato e invivibile a causa della siccità e delle radiazioni causate da guerre nucleari. Cinquecento anni fa circa, con arche spaziali molti vennero trasferiti sui pianeti vicini. Molti altri rimasero là a morire, tra questi i miei genitori. Io avevo cinquant’anni allora. Insieme a mia moglie e i miei due figli partimmo per Marte. Ma già l’Impero era entrato nelle nostre vite. Già allora non eravamo più gli esseri di un tempo, già allora vivevamo condizionati dai nostri chip di controllo. Non fu molto tempo dopo che rifiutando i controlli abituali ai quali avrei dovuto sottopormi (ero al terzo rifiuto!) venni prelevato: l’ultima immagine che ho di quel tempo è la disperazione di mia moglie e dei miei due figli. Dal quel momento la mia memoria passata s’azzerò per vivere in un eterno presente. Appartenevo alla feccia dei Refrattari.

Ma ora so chi ero stato e perché mi aveva attratto quel busto: ero stato un musicista. Una parola che non ha più senso in questa epoca dell’Impero. La musica non è mai esistita in tutte le tre galassie. Io ora so cos’è la musica e perché apparteneva agli uomini di un tempo. Ero scosso, sentivo suoni che mi attraversavano in tutto il corpo, riconoscevo i brani, mi vedevo suonarli. Bach, Mozart, Brahms, Chopin, Mendelssohn, Verdi, Rossini, Schoenberg, Debussy, Beatles, Pink Floyd, Mahler, Liszt, Ciaikovskij, Ravel, Rolling Stones, Queen, U2, Schubert, Schumann e Beethoven e… quanti altri! Tutto si mescolava in un arcobaleno di suoni e mi trascinava in un turbinio di colori sonanti: tutti li riconoscevo, a tutti davo un nome, tutti erano stati un percorso della mia vita. Rivedevo le partiture, mi rivedevo suonare. Non avrei mai più dovuto staccarmi da tutto questo.

Ancora immerso in quel vortice d’emozioni, sentii scattare la serratura della cella. Con mia somma sorpresa entrò quella donna che mi aveva condannato: aveva in una mano il busto di Beethoven e nell’altra teneva la custodia di quello che immaginai fosse uno strumento. Cosa significava tutto questo? Cosa voleva da me?

– Caposquadra MAK IV ora che hai capito chi sei, saprai anche cos’è questo. – e aprì davanti a me quella custodia. Dentro, seppur opaco e spento, s’intravvedeva il color marrone di un violino col suo archetto. La guardai, non capivo se era una provocazione, ma lei con un cenno mi fece capire che potevo prenderlo. Lo sollevai come si solleva un bimbo appena nato, lo accarezzai, lo annusai, scossi le corde scordate da un lungo silenzio.

– Sai suonarlo, vero?

– Sì, un tempo sono stato primo violino. – risposi – Ma se lo suono mi sentiranno tutti su questo pianeta e nelle centrali di controllo, lo sentirà tutto l’universo. – Una preoccupazione inutile, oramai.

– È quello che voglio. – rispose decisa.

– Cosa vuole che suoni?

– Quello che ti piace. Ma fai alla svelta.

La guardai con gli occhi asciutti e scavati dal lungo pianto. Qual era lo scopo di un simile gesto? Non ero più in grado di comprenderlo. Cominciai a tentare di accordare il violino, le mani mi tremavano e avevo paura di rompere le corde. Ci volle un po’ e nel frattempo le note mi passavano nella mente una per una. Finché.

– Sono pronto.

– Vai pure. È da tanto che aspetto questo momento.

Mi sorprendeva la sua decisione, perché mi rendevo conto che era irrimediabilmente compromessa. Da quella cella non sarebbe più uscita. Chi era quella donna e perché ora piangeva con me?

Pensai ancora a ciò che potevo suonare e che dovevo farlo subito prima che entrassero a togliermi quello strumento. Guardai il mio amato Beethoven e chissà perché lo vidi sorridere per la prima volta. In quella cella quadrata avrei potuto suonare tutte le musiche per violino che conoscevo, ma a quel busto dovevo la mia rinascita e la mia morte.

Nel vuoto di quell’esistenza, le note della Romanza n.2 in Fa maggiore di Ludwig van Beethoven risuonarono nell’aria dell’universo delle tre galassie. Nessuno entrò a fermarmi.


MOTIVAZIONE

Breve racconto fantascientifico – ma forse neanche tanto – in cui le vicende narrate propongono le ataviche antitesi: ordine e caos, omologazione e ribellione in un’immaginaria galassia del cosmo. Il protagonista – all’inizio reietto e ribelle, relegato a compiti di “spazzino del cosmo” e mezza spia – che nel corso della sua lunghissima esistenza ha ceduto alla sottomissione – trova il suo riscatto in un finale inatteso e utopico, che diventa ad un tempo via da percorrere e stella polare; l’arte della musica – mai dimenticata – è  delle anime belle, anche di quelle robotizzate. La scrittura, composta da periodi brevi  e densi, rende la lettura avvincente, spingendo il lettore a cercare rapidamente l’ossimoro “amaro lieto fine”.