LA CANTINA DI CLENA
di Giuseppe Argentieri
La prima volta fu quando avevo sedici anni. Era un sabato di Ottobre, verso sera. Gli alberi della piazza del paese sembravano tratteggiati dai pastelli di un abile pittore, con quelle foglie di intenso amaranto e caldo tabacco che solo l’autunno sa regalare. Davanti a quella porta mio cugino, più grande di un anno, con piglio sicuro e il fare saccente di chi si sente ormai uomo, sembrava fiero di iniziare anche me.
L’adolescenza porta impazienza, irrequietezza, desiderio di commisurarsi con prove “virili” per urlare al mondo che sappiamo essere grandi. Ed io volevo essere grande.
Così varcai la soglia di quella porta ed entrai. La cantina di Clena: fu là che lo conobbi! Era l’unica cantina del paese, una sorta di istituzione: ci si andava a comperare il vino, a volte in bottiglie confezionate, più spesso a prenderlo “sfuso” riempiendo bottiglie più o meno grandi e di varie forme o anche in damigiane da cinque o dieci litri.
In quello stanzone intriso di tempo i filamenti incandescenti di una lampadina posta al centro del soffitto rischiaravano le pareti di una luce giallina e debole. Salutavamo rispettosamente gli astanti dei vari tavoli che costeggiavamo per raggiungere il bancone posto in fondo alla sala. E così tra un “Salute compare” e un “Buonasera Cavaliere” arrivammo davanti alla bonaria figura di Clena che ci chiese:
“Ragazzi che vi metto?”
Lasciai fare a mio cugino e mi ritrovai con un bicchiere di passito in mano, perché secondo lui “la prima volta è bene bere un vino dolce che scende meglio se non sei abituato”.
Dopo un comprensibile disagio iniziale cominciai a guardarmi intorno attratto dai quei crocicchi di gente riunita intorno a tavolini in legno sopra i quali brocche dal collo strozzato o fiaschi impagliati si alzavano sovente, strette tra mani sapienti, a riempire i bicchieri. Il mio timido sguardo di studente imberbe spaziava tra le botti imponenti, i marmittoni consunti del pavimento, quei cartelli di latta sui muri che intimavano “Non sputare per terra” o “Vietato bestemmiare”; a volte incrociavo lo sguardo di qualcuno degli astanti che manifestavano affetto e divertimento nei confronti di due matricole come noi.
Impressi nella memoria porto quei fotogrammi che sarebbero poi maturati nella percezione che il vino è la quiete che avvicina gli uomini, è il tramonto che spegne gli asti, è una lanterna che dona conforto, un focolare che chiama a raccolta.
Io non divenni grande quella sera, ammesso che lo si diventi mai; la fierezza di aver bevuto vino insieme ai “grandi” si leggeva bene sul mio volto e si mescolò, uscendo, a gambe molli e corpo accaldato. Fu quello il mio battesimo del vino.
Ma il vino avrebbe accompagnato altre stagioni della mia vita.
Mi fu complice tra i riflessi lucenti di calici di cristallo al lume di candela, il suo corpo vellutato scendendo liberava passione e accendeva gli sguardi di una cena romantica.
Accompagnò la goliardia degli anni giovanili, di cento scampagnate con gli amici, animandole col suo spirito novello, tramutando l’esuberanza in eccesso.
Fu la musica popolare che diffonde allegria, che riempie le strade e le piazze in festa, mescendosi coi colori e i sorrisi e la spontaneità.
Fu il piacere della misura, il legno che trasforma l’esperienza in saggezza, la voce che sa narrare il divenire di Siddhartha, la sana follia di Macondo, la voglia di volare di Jonathan Livingston.
Il vino porta con sé un po’ di vita: è un incontro di sole, di pioggia, di terra e di amore; è la vendemmia che partorisce e il tempo che segna. In ogni calice versa un destino, racconta una storia, poi se ne va donando quello che ha.
Con me porto sempre il ricordo di quel primo bicchiere di vino che custodisco geloso, come il primo bacio.