Seconda classificata
IL FISCHIO
di
Edda Valentini
Il treno Freccia rossa 9562, arriva alla stazione di Milano alle tredici spaccate.
Quando scendi sulla banchina ti guardi intorno con aria smarrita. Il giovane Dario doveva già essere lì, ma è rimasto imbottigliato nel traffico e per di più ha il cellulare scarico. Con aria insofferente ti sistemi i capelli brizzolati raccolti alla nuca e allenti l’inseparabile foulard di seta a fiori,unico vezzo al tuo abbigliamento rigoroso. La cappa afosa è davvero insopportabile, si legge sul viso provato mentre trascini il piccolo trolley verso l’uscita. Non hai mai retto quelle temperature, oggi però ti pare proprio di non farcela. Hai appena compiuto settantanni, forse sei peggiorata di botto, pensi sorridendo tiepidamente. Qualcosa te lo smorza subito quel mezzo sorriso: il lungo lancinante fischio del capotreno.
Non c’è rimedio. Anche se ormai è trascorsa una vita , quella cosa ti torna sempre su come i peperoni , che non sei mai riuscita a digerire.
Hai poco più di sei anni quando arranchi lungo il sentiero sterrato sotto il sole a picco. Incedi con in mano un rotolino di nazionali senza filtro, attenta a non stringerlo troppo. Sai bene cosa ti aspetta se tardi qualche minuto. Ce la metti tutta, ma i tuoi sforzi sono come sempre vani. Il tempo è troppo avaro per quel percorso impervio e per le tue gambette magre. Il fischio, di quelli modulati a richiamo, arriva puntuale e ti fa sussultare di paura. Col cuore in gola e voce accorata cantileni parole di aiuto in dialetto,che forse ti intende meglio il tuo angelo lassù:” Anzulin de mi cor che tam dè e tu amor,fam camnè più fort ancor, fam camnè più fort ancor”… (angiolino del mio cuore che mi dai il tuo amore fammi camminare più forte ancora,fammi camminare più forte ancora)
Quel giorno di agosto, mentre accenni una corsa, le tue scarpe di straccio scivolano su un ciottolo e cadi sbucciandoti un ginocchio. I tuoi occhi pieni di lacrime ignorano il rivolo di sangue che cola lungo la gamba e fissano, disperati, le sigarette schiacciate sotto la tua mano.
A fine novembre sei tornata a Milano. Hai rassicurato Dario, nessun disturbo. Questa volta hai preso un taxi, con questo tempaccio preferisci così. Al tipo alla guida non fai caso, sei troppo stanca e riversi subito il capo sullo schienale. Lui invece ti ha notata. Da quella posizione vedi la sua faccia riflessa nello specchietto. Ti guarda spesso. Ti scruta con i piccoli occhi vivaci strizzandoli, come a voler ricordare. Di colpo sbotta in un forte accento siciliano:” Ecco dove l’ho vista…. un servizio al telegiornale ! Maria Spinelli,dico bene?” Ti fissa e ti preoccupi, con quella pioggia battente non è il caso che si distragga.
Per questo annuisci in fretta e balbetti un timido: “Si,si, ha indovinato.” Non ami affatto essere al centro dell’attenzione. Aveva ragione Pasolini quando diceva che il successo è l’altra faccia della persecuzione.
Il tassista però non la pensa così. Vuole saperne di più e comincia a fare domande. Con tono gentile lo rassicuri: non c’è niente di epico in quello che hai fatto, solo tanta fortuna!Ti stringi nel cappotto color cammello e chiudi gli occhi.
Le finestrelle poste in basso su una parete ammuffita fanno entrare nel solaio un quadrato di luce grigia. Tu e l’amica Caterina, ambedue di dieci anni, sedete su una vecchia coperta militare in attesa. Indossate straccetti leggeri e sopra maglie sfilacciate fuori misura per ripararvi dai primi freddi. Di lì a poco irrompe Irma con in mano un mazzo di carte romagnole. Vi disponete in cerchio e iniziate il gioco del rubamazzo. D’improvviso Caterina si ferma sfoderando un’espressione maliziosa. Annuncia con enfasi che alla Luigina quella notte erano venute ‘le sue cose’ e il letto si era tutto allagato di sangue: “Le roba ad doni, fra poc e suzederà enche ma nun”(Son cose di donne, fra poco succederà anche a noi)
La tua buffa smorfia di disgusto fa scoppiare le altre in una gran risata. Le carte volano in aria, volteggiano e ricadono come coriandoli sulle vostre chiome ricciolute.
Ed ecco il fischio di richiamo, secco e tagliente.
L’ilarità cessa di colpo. Lo sguardo compassionevole delle tue amiche scivola repentino sul tuo polpaccio nudo, dove è stampato il marchio livido dell’ultimo ritardo. Caterina si affretta alla finestra. Fuori piove a dirotto e Giuditta non è più legata all’albero dove l’avevi lasciata. Caterina scuote la massa di capelli ramati e ti implora di fuggire, fuggire subito come la pecora, sennò il tuo babbo ti ammazza di botte.
Dario ti accoglie all’ingresso della casa editrice con un mazzolino di mughetti, i tuoi fiori preferiti. Sono così rari in pieno inverno! Una volta ti era scappato di dirlo, non avresti dovuto. Mentre ti sfila premuroso il cappotto,il giovanotto annuncia che il direttore ti sta aspettando con ansia. Ti togli il basco alla francese,sistemi con cura il raffinato carré fresco di piega, sciogli il nodo al solito foulard e ti avvii.
Lungo il corridoio si affacciano le porte socchiuse degli uffici. Dall’interno arriva il fermento dell’attività lavorativa: voci di uomini e donne, squilli di telefoni fissi e cellulari si intrecciano alla musichetta allegra in sottofondo. Diversi dipendenti escono a salutarti e ancora ti sorprendi per quell’affetto, che ogni volta ti commuove. L’ultima stanza è quella del direttore,la porta è chiusa. Rimani per alcuni istanti immobile con la mano sulla maniglia.
Stai per afferrare la maniglia quando le parole di Caterina riecheggiano forti nell’aria: ”Scapa, scapa via sobti se no e tu ba u t’amaza ad boti!”.(Scappa, scappa via sennò il tuo babbo ti ammazza di botte)
Tentenni a lungo, poi tiri un respiro profondo e con aria rassegnata apri.
Nella modesta cucina aleggia l’odore acre di peperoni bruciacchiati. Tuo padre, alto e severo, ti scruta con i suoi temibili occhi neri. Ha una sigaretta in bilico sull’orecchio. Un impercettibile fremito di rabbia gli muove i baffetti scuri. Tu rimani a testa bassa fissa sulla cintura, che lui, lentamente, sta sfilando.
Dietro alla scrivania, sommersa da una montagna di materiale cartaceo,la grande parete è tappezzata da foto dei più famosi scrittori del novecento. Dal divanetto rosso Borgogna, dove sei seduta, le fissi incredula. Sei al fianco di Moravia e poco sotto Pasolini; avresti preferito il contrario, comunque… quale onore!
Ti sembra impossibile essere paragonata a quei giganti.
Il direttore editoriale è un tipo segaligno. Ha il viso molto segnato per i suoi sessantanni, baffi e capelli già canuti.
Con la voce roca del fumatore incallito, liquida in fretta l’interlocutore al cellulare e viene ad abbracciarti. Dopo i soliti convenevoli pare voglia aggiungere qualcosa, ma si trattiene. Prende tempo, tergiversa. Ti informa di quante E-mail stiano arrivando dai tuoi fan,soprattutto giovanissimi, toccati al cuore dal tuo libro.
Ti aggiorna sulle vendite, cresciute in maniera esponenziale al di là di ogni previsione. A breve usciranno le due nuove edizioni in russo e portoghese.
Tu gli sorridi con aria candida e lo preghi di girarti le lettere, vuoi rispondere personalmente a tutte. Lui annuisce e controlla impaziente l’orologio. Fra due ore dovete andare in diretta TV.
Si mordicchia le labbra poi si avvicina al tuo orecchio con fare confidenziale. Sputa il rospo a bassa voce, quasi un sussurro, sa quanto può darti fastidio. Di fatto bypassa subito questo pensiero e snocciola vari motivi per caldeggiare l’intervista richiesta.
Si tratta di mettere in piazza la tua vita privata, mettere a nudo il tuo intimo: “è il tuo pubblico che lo chiede” annuncia con enfasi e una bella dose di ipocrisia.
Tu lo fissi senza ascoltarlo più. Su quel viso, a pochi centimetri dal tuo, riesci a percepire solamente il leggero tremolio dei suoi baffetti.
Squilla il telefono.
Mentre lui va a rispondere ti chiede di pensarci. In realtà non aspetta il tuo consenso è già un dato di fatto, sei sempre stata conciliante su tutto.
Rimani qualche attimo assorta su quella figura alta, magra, girata di spalle. Un guizzo passa nei tuoi occhi, un’idea ti attraversa la mente. Perché no? Ti alzi in silenzio, prendi borsa,cappotto, foulard e in punta di piedi esci dalla stanza. Le porte degli uffici ora sono tutte chiuse, i rumori isolati dentro. C’è solo una ragazza a metà del corridoio accanto alla macchina del caffè. Quando le passi vicino, lei si gira lentamente ondeggiando la folta chioma di capelli ramati. Il suo viso lentigginoso ha gli stessi tratti somatici della piccola Caterina. Vi guardate intensamente. Una strizzata d’occhio segna la vostra intesa.
La porta automatica e il portoncino d’ingresso si chiudono alle tue spalle. Fuori fa un gran freddo. Ti infili in fretta il cappotto e subito ti rendi conto che il tuo foulard è rimasto incastrato fra i battenti. Prendi il lembo che sporge fuori e provi a tirarlo,una volta,due, poi gli giri le spalle e lo lasci penzolare nell’aria.
Nel campo di erba medica la piccola Maria corre felice in direzione del fiume. Si volta sventolando la mano in segno di saluto.
In mezzo al prato la pecora Giuditta la fissa immobile.
Maria torna a guardare avanti e continua il suo cammino verso la libertà.
FINE