Sez. Racconti 2017 – secondo classificato

Uno sguardo per cambiare

di Alice Fraccaro

Qualche mese fa mi traferii in una nuova casa. Trovai molti oggetti interessanti ma ciò che mi colpì maggiormente furono due diari. Il primo sembrava essere appartenuto ad un nonno, il secondo alla nipote, e insieme davano il quadro generale della reazione di una famiglia intera alla malattia di Alzheimer che aveva colpito il nonno.

Prima della prima pagina del diario del nonno cominciava c’era un foglio volante che diceva:

Tre anni fa a mio padre venne diagnosticata la malattia di Alzheimer. Questo significa che già da un po‘ di tempo la sua memoria non funzionava più a dovere, e sarebbe peggiorata. Mia madre non la prese bene. Prendeva ogni cosa con un pessimismo che non era da lei, che era sempre stata molto ottimista. Mio padre percepiva questa sua costante tristezza e ne soffriva, e si sforzava di farla soffrire il meno possibile, chiudendosi in se stesso. Io e mio fratello non sapevamo come comportarci, così abbiamo regalato a papà un grosso quaderno a righe e una penna e gli abbiamo chiesto di tenere un diario aggiornandolo ogni giorno. E così ha fatto.

Alla fine però non lo abbiamo mai letto. Ci sembrava una violazione della poca intimità che gli era rimasta, e lui ci teneva davvero: spesso appendeva fogli e post-it per ricordarsi di scriverlo. Quando è mancato eravamo troppo sconvolti e tristi per leggerlo, così lo abbiamo aperto solo recentemente, e ora speriamo sinceramente che per altri sia utile.

E poi cominciava il racconto effettivo del nonno:

Caro diario,

non so che vogliono che io me ne faccia di te. È vero, ho l’Alzheimer, ma questo non significa che io abbia bisogno di te. Ho una famiglia con cui parlare, un cane da portare a spasso e con cui giocare, i miei libri da leggere e da studiare e capolavori del cinema da guardare. Vedi? Non mi servi tu.

Del resto lo sanno anche loro. I miei figli mi hanno chiesto di scriverti, ma non per me: per loro. Perché non sanno come comportarsi, cosa passa per la mia testa. Quella stessa testa che, a quanto pare, non funziona più come un tempo. Perché un pezzo di carta ti cambia la vita. Un giorno sei perfettamente autosufficiente, il giorno dopo non puoi neanche andare in bagno da solo. Solo perché qualcuno ha scritto su un pezzo di carta che sei malato. Ma dico io, se fino a ieri mi capivate perché oggi non ci riuscite più? Se fino a ieri potevo andare dovunque da solo perché ora se mi muovo per casa vengono tutti a controllare che io sia ancora vivo?

Mi sa che per oggi ho fatto il mio dovere. A domani, purtroppo.

Aldo

Pur essendo malato, quindi, il nonno non si riteneva diverso, e riteneva inutile e irritante il cambiamento dell’atteggiamento della famiglia . Dopo qualche mese però scrisse:

Caro diario,

Sono passati cinque mesi dalla diagnosi e un po’, devo ammetterlo, sono peggiorato. Penso di dimenticare le cose più velocemente, ma in realtà non ne sono sicuro. Quello che non capisco, però, è il criterio con cui dimentico le cose: ad esempio, mi ricordo alcuni episodi della mia infanzia ma non mi ricordo quello che mi è stato detto venti minuti fa. Per quanto io mi sforzi, le cose scivolano via ed io non riesco a trattenerle. All’inizio pensavo che concentrandomi sarei riuscito a ricordarle. Poi ho cominciato a pensare che fosse come quando hai le mani sporche di olio e provi ad aggrapparti a qualcosa, ma questo scivola via. Ma in realtà è peggio perché non puoi trattenerle. È come uno di quei pesci piccoli e veloci di cui non ricordo il nome, che scivola via e neanche te ne rendi conto. E poi ti accorgi di aver dimenticato ciò che ti era stato detto quando qualcuno ti parla di qualcosa che evidentemente dovresti sapere, ma di fatto non sai perché l’hai dimenticata.

Non ho idea di quante cose ho dimenticato, ma forse va meglio così. A questo punto la mia ultima speranza è di non peggiorare, perché non penso che potrei sopportare di ferire un mio caro non ricordandomelo.

Devo ammettere però che sei una bella idea. Non posso sfogarmi con nessuno perché hanno già i loro problemi, quindi mi è utile scrivere qui. Mi libero un po’ la mente, metto per iscritto i problemi e i dolori che mi perseguitano e mi allontano un po’ da quella che sta diventando una gabbia. Quindi grazie, diario.

A questo punto però mi sembra necessario inserire un pezzo del diario della nipote:

21 settembre

Mio nonno ha l’Alzheimer. I medici glielo hanno diagnosticato un anno e mezzo fa, ma io so che sono anni che ce l’ha. Si vedeva, solo che non conoscendo la malattia non ci siamo posti il problema finchè è stato trascurabile. A me e a mia sorella non è stato detto subito cosa gli succedeva; nessuno ci ha spiegato in cosa consisteva la malattia, né come comportarci e cosa fare per farlo stare meglio. Tutto quello che sappiamo lo abbiamo imparato da sole con inutili ricerche su internet e tanta esperienza.

L’estate scorsa ho deciso di cominciare a fare volontariato: le possibilità erano molte, ma io volevo stare con gli anziani per capire meglio cosa fare con i miei nonni e perché mi attirava l’idea di lavorare con loro in futuro. Così scelsi di andare in una casa di riposo e in un centro diurno di accoglienza per malati di demenze in generale.

Così a giugno cominciai le mie avventure e da allora ho incontrato molti tipi di persone che mi stupivano sempre perchè non riuscivo a capire come facessero ad avere un simile atteggiamento nei confronti della vita. Mi aspettavo degli anziani con la bava alla bocca, immobilizzati sulle sedie a rotelle, malati, tristi e spenti, ma spero che anche voi possiate capire quanto mi sbagliavo!

Di queste persone però, più che altro mi hanno colpito gli occhi. Tutti diversi, eppure con una caratteristica in comune: sono il massimo dell’espressività, nessuno riuscirà mai ad aprirsi così con uno sguardo come loro fanno.

In seguito purtroppo la malattia cominciò a degenerare, e il nonno se ne accorse…

Caro diario,

Non so cosa mi succede. O meglio, lo so, ma non voglio crederci né accettarlo.

Non ricordo. E con questo intendo che ogni giorno, quando mi sveglio, non so dove sono; quando in piazza qualcuno mi saluta, non ricordo chi è; quando qualcuno mi parla non sempre capisco le parole; e spesso non trovo le parole per dire quello che penso, perché mi sfuggono; infine, a volte qualcuno mi dice che ho già detto la stessa cosa più volte, ma non me ne rendo conto. Esco e mi dimentico cosa devo fare; nei negozi arrivo dal commesso e non so cosa gli volevo chiedere.

La cosa peggiore? La pena negli occhi di tutti. Mi fa sentire diverso, meno bravo, meno autosufficiente; il fatto che io sappia che queste cose sono vere non aiuta, né rende gli sguardi più sopportabili. E questi sguardi non vengono solo dal giornalaio a cui chiedo la strada per casa mia, ma anche da Diana, dai miei figli, dai miei nipoti, dagli amici… Tutti. Faccio pena a tutti. Veramente mi faccio pena da solo.

La nipote però, ancora non particolarmente ferita dal peggioramento del nonno, continuò a osservare tutti i dettagli positivi negli altri malati di Alzheimer.

La prima persona con una demenza che ho conosciuto (tralasciando mio nonno) è Angelo. È una delle persone più dolci, affettuose e premurose che conosco. Appena mi vede mi saluta e non manca mai di venirmi incontro per darmi due baci sulle guance. Se vede che qualcuno è giù di morale è il primo a consolarlo, se qualcuno è felice lui è felice di conseguenza. Ha avuto un ictus tanti anni fa, e da allora ha una demenza che, in parole povere, gli fa dimenticare i termini, quindi spesso bisogna indovinare cosa vuole dire. Forse è proprio per queste difficoltà che riesce a notare di più le cose positive. Non penso di aver mai sentito qualcuno ringraziare più di lui, anche se apparentemente non ce n’è motivo.

Con la malattia ha anche imparato a godersi di più la vita: incurante delle conseguenze ruba un crostolo in più, finge di non aver ricevuto la sua fetta di panettone, passeggia anche se fa fatica. Non è sempre facile, ma ha trovato il modo di essere felice nella difficoltà.

Nonostante le forti strette di mano, gli affettuosi abbracci e le semplici parole, la parte più espressiva di lui sono gli occhi: è dallo sguardo che capisci il suo vero stato d’animo.

Quando vede qualcuno gli occhi gli si illuminano. Nonostante qualcuno passi sempre il tempo con lui, ancora non ci ha fatto l’abitudine e ogni volta si sente più felice e amato. Anche quando riceve piccoli gesti di affetto o un po’ di attenzione gli occhi sprizzano felicità: bastano cose per noi banali, come chiacchierare con lui durante la passeggiata o avvicinargli il bastone quando si deve alzare dalla sedia.

È anche molto sensibile: vi faccio un solo esempio, che però vale più di mille altri. Tra poco sarà il suo compleanno, e l’ho scoperto quando parlavo di questo con lui e un’altra volontaria. Allora a noi è venuto spontaneo dirgli che sicuramente lo avremmo festeggiato insieme e che ci sarebbe stata anche una torta, dato che questa è l’abitudine nell’associazione; lui però si è commosso con questo spontaneo gest, gli occhi gli si sono riempiti di lacrime e ha cominciato a ringraziarci. Purtroppo non penso che possiate immaginarvi la scena, perché le emozioni e i brividi che ci hanno dato quelle lacrime non sono immaginabili.

Comunque come tutti ha anche lui le cosiddette giornate storte: gli angoli degli occhi allora sono leggermente piegati verso il basso, le pupille rivolte verso il pavimento; non c’è la luce caratteristica di quello sguardo. E allora tutti spontaneamente cominciano a provare a farlo stare meglio, dandogli un abbraccio un po’ più stretto o lasciandogli un pezzo di merenda in più.

Non so se senza questa malattia sarebbe lo stesso, ma sono fermamente convinta che pochissime persone sappiano apprezzare e restituire in emozioni così forti ciò che ricevono quotidianamente.

Chiara

E a queste osservazioni alternò lettere molto profonde, sempre riferite agli altri malati che vedeva.

28 settembre

Vuoi parlare, ma nessuno capisce. O non capiscono le parole, o il concetto che vuoi esprimere. E quindi tutti sorridono e annuiscono, ma nessuno risponde alle tue domande, nessuno conversa con te: non ti capiscono proprio.

Nessuno ti capisce, ma in fondo non è colpa loro. Tu non riesci a trovare le parole e fai discorsi scollegati tra loro e loro non ci sono abituati. Ma se tu avessi bisogno di qualcosa di urgente come dovresti fare? Se qualcuno ti chiedesse qualcosa di importante ma non capisse la risposta, come dovresti fare?

Ogni tanto c’è anche qualcuno che prova davvero a capirti, che si impegna. Ti si mette vicino per sentire meglio la tua flebile voce, fa attenzione ad ogni singola parola che esce dalla tua bocca, dice a tutti di stare zitti per capire ciò che dici. Ma non basta. Ascoltare è il primo passo, ma capire è il secondo. E per quanto ci si sforzi, spesso capire il filo del discorso è una dura prova da superare. Non solo per loro, ma anche per te. Se qualcuno ti fa una domanda, non è detto che tu la capisca, e questo non riescono proprio a concepirlo. Così dici quello che ti senti di dire, e se un attimo dopo cambi idea su cosa dire, cominci un discorso totalmente nuovo senza che nessuno se ne accorga. Per questo, alla fine, nessuno ti riesce a capire.

Del resto, quindi, come puoi prendertela se non ti capiscono? Come puoi prendertela se, pur provandoci davvero, tutti ad un certo punto cominciano a sorriderti teneramente, a tenerti la mano e ad annuire con brevi cenni della testa? Non fa differenza se parli della morte di un tuo parente, del lavoro che facevi o di quanto bello sia il sole splendente: non ti capiscono comunque.

Questa situazione però ti aiuta a realizzare una cosa: per quanto l’ascolto sembri una cosa scontata, è raro trovare qualcuno che davvero si sforzi di seguire quello che si dice. Per non parlare, poi, dell’ascolto del corpo: anche il corpo e i gesti parlano, ed essere un attento osservatore aiuta ad essere un buon ascoltatore. Molti, però, non l’hanno ancora capito, e quindi ti fissano la bocca per capire il labiale di quello che stai dicendo e non fanno attenzione allo sguardo, a cosa fanno le mani, alla posizione del viso e a tanti dettagli che, sommati, danno perlomeno un’idea generale dell’argomento.

In realtà però spesso neanche tu ti capisci. Ciò che pensi ora tra poco sarà dimenticato o sepolto tra mille altri pensieri, quello che dici ora è diverso da quello che dirai tra poco. E questo confonde anche loro. Il tuo sguardo a volte si fa confuso, la fronte leggermente corrugata, e per quei pochi che ci fanno attenzione è un segno importante : nemmeno tu sai bene quello che stai dicendo. Potrebbero aiutarti, fare qualche domanda su quello che hanno capito per riportare a galla l’argomento. E invece no. Ti sorridono, ti stringono la mano e si allontanano, abbandonandoti nella tua confusione interiore.

E di certo questo non aiuta né te né loro.

E infine il nonno ebbe il suo primo momento di assoluta disperazione…

Caro diario,

Sono disperato. Oggi pomeriggio è venuta a trovarmi mia nipote, la più grande (e già qui mi sento una stretta al cuore: non ricordo il suo nome), nonostante né io né Diana sapessimo che sarebbe passata. Quando è entrata in casa io non l’ho sentita, perché sì, sto diventando anche un po’ sordo, così non so quanto tempo fosse passato quando l’ho vista.

L’ho vista all’inizio del corridoio. Mi è venuta incontro. Sorrideva, un sorriso dolce, affettuoso. Avevo la sensazione di averla già vista, ma non avrei saputo dire dove, quando e, soprattutto, chi fosse. Poi mi ha salutato. Mi ha detto:”Ciao nonno!”, e io continuavo a non capire chi fosse. Che ci faceva in casa mia? E poi è arrivata Diana, per fortuna. L’ho guardata e le ho chiesto:”E lei chi è?”, indicando la ragazza che stava di fronte a me con un sorriso un po’ forzato e gli occhi gonfi di lacrime.

Quando Diana mi ha detto il suo nome, nella mia testa non è apparsa l’immagine di quella ragazza, ma di una piccola bambina dai grandi occhi azzurri e con un vestitino rosa e beige. E poi la bambina è cresciuta, fino a diventare una giovane ragazzina, vestita con dei completi estivi colorati e con i capelli che le arrivavano sotto le spalle. E poi guardai bene la ragazza che avevo davanti, e vidi gli stessi lineamenti delle bambine che ricordavo e lo stesso sorriso dolce. Era lei, solo cresciuta di alcuni anni. Era mia nipote, e io non sono riuscito a riconoscerla.

Lei provava a mascherare la tristezza, io non ho retto. Mi sono rattristato capendo quello che mi succedeva, ma anche commosso vedendo come quella bambina fosse ormai una giovane ma forte donna.

Non so quanto peggiorerò ancora, né quanto vivrò, ma spero solo che quando leggeranno quello che sto scrivendo, tutti quelli che amo capiscano che non lo volevo, non lo voglio e non lo vorrò mai. Non voglio dimenticare.

A differenza del nonno Chiara non la prese così male come ci si aspetterebbe, ma riuscì a vedere nuovamente il lato positivo. Successivamente il nonno non riconobbe neanche la sorella di Chiara, e lei rispose con questa lettera nel suo diario.

Caro nonno,

Ti voglio bene. Di solito, quando una persona continua a ferirti finisci per odiarla, ma con te è diverso. So che non vorresti farmi soffrire, e so che, mentre io sto male, tu stai peggio. Tu ti rendi conto di quello che ti succede e per questo soffri molto, anche senza parole si capisce. Basta uno sguardo. Uno sguardo a quel sorriso triste che spesso fai, come a dire “So che, prima o poi, non ricorderò più tutto questo”. Uno sguardo a quegli occhi azzurri pieni di lacrime, quando ricordi qualcosa che avevi dimenticato, quando capisci che tutti ti vogliono bene, quando capisci che non sei solo.

Anche Rebecca sa che non vorresti ferirla. Sa che, se avessi, l’avresti riconosciuta sabato. Sa che, se potessi, non le avresti detto: “E tu sei…?”. Sa che tu ci stai male. Quando le hai chiesto chi era si è girata verso di me con uno sguardo allibito, come a dire “Gli manca qualche rotella”. Quando oggi le ho detto che, mentre andava via, ti si sono riempiti gli occhi di lacrime ed è comparso sul tuo viso quel sorriso triste, è scoppiata a piangere. Letteralmente. Un attimo prima era normale, seria, quello dopo era rossa in viso e tante grosse lacrime mi hanno bagnato la maglia quando l’ho abbracciata. Sinceramente non l’avevo mai vista così. È sempre stata la mia sorellina forte, estroversa, che spezzava cuori a destra e a manca, e vederla così mi ha distrutta.

A casa nessuno parla. Nessuno spiega cos’è l’Alzheimer. Nessuno spiega cosa comporta. Nessuno spiega cosa ti succede. Mamma lo vede da sola, papà vive nel suo mondo e non gli cambia niente il tuo stato, io ti vedo un po’ e, per fortuna, ho la possibilità di conoscere questa malattia anche con il volontariato. A Rebecca non pensa nessuno. Mamma non parla. Papà non parla. Quando le ho detto che non mi avevi riconosciuta, ripensandoci, dev’esserle sembrato qualcosa di astratto, lontano, impensabile. Sconosciuto, più che per chiunque altro.

Non l’avevo mai vista così, e mi ha distrutta. Non ti avevo mai visto così, e mi hai distrutta. Non ti eri mai visto così, e ti stai distruggendo. Non avevo mai visto la mamma così indifferente, distaccata, inavvicinabile, e mi ha distrutta. Non avevo mai visto la nonna così stanca, affaticata e stressata, e mi ha distrutta. Ma, nonno, non ti avevo neanche mai visto ridere così tanto. Non ti avevo mai visto scherzare. Non ti avevo mai sentito così vicino, desideroso di non perdere un solo dettaglio della mia vita. E questo ha compensato tutto il resto, per me e per Rebecca.

Con affetto,

Chiara

E, nonostante le sempre maggiori difficoltà da affrontare, Chiara non si lasciò buttare giù ma cercò di capire sempre meglio osservando i malati e scrivendo di loro e dei problemi che incontravano; scrisse anche alcune delle conclusioni che riuscì a trarre, e paradossalmente erano sempre più positive.

Sai cosa vuol dire. Lo sai, eppure non lo sai. Ti manca una parola, e quella dopo, e quella dopo ancora. Eppure sono parole semplici, che hai sempre usato. E quindi perché non le sai più?

Sai come si fa questa cosa, l’hai sempre fatta. Eppure non lo sai, ripensandoci. È una cosa così banale, quotidiana, ma tu non la sai più fare. Perché?

Sai dove abiti. Del resto, chi non sa dove abita? Però, quando te lo chiedono, ti blocchi. Dove abiti? Non lo sai più. Perché?

Sai chi è questa persona, sicuramente la conosci. Ha un’aria familiare, assomiglia a qualcuno… ma non capisci chi è. E lei ti viene incontro, e ti saluta con affetto. Ma chi è? “Ciao nonno!”. Perché non ti ricordi di lei?

Stai dimenticando tutto. Non riconosci casa tua, la tua famiglia, non sai dove sei, non riesci ad esprimerti né a fare cose elementari. Perché hai l’Alzheimer. Anzi, stai dimenticando tutto ciò che non vorresti dimenticare. Perché ora ricordi di non aver ricordato e te ne vergogni. Perché proprio a te? Perché la gente deve soffrire a causa tua?

Vuoi davvero saperlo? Perché così potrai innamorarti di nuovo di tua moglie. Perché così ogni volta che vedrai tua figlia sarà la prima. Perché così ogni nipote sarà il primo. Perché così ogni libro sarà emozionante come la prima volta, perché così ogni film sembra appena uscito. Perché così ogni volta puoi conoscere i tuoi amici dall’inizio. Perché così è passata una settimana dal tuo ventesimo compleanno. Perché così vivi sempre daccapo. E, diciamocelo, quanta altra gente ha questa possibilità?

Inoltre sfogliando il diario di Aldo trovai un altro foglio scritto da suo figlio, che dimostrava che anche lui era arrivato ad una visiona positiva della malattia.

Penso che sia giusto fare tabula rasa a un certo punto della propria vita. Per esempio, ti ricordi il suono dell’acqua di una pozzanghera quando ci salti dentro? Probabilmente no, perché più cresci, più cerchi tutti i buoni motivi per cui non dovresti farlo.

O ancora, ti ricordi quando dicevi a una persona ciò che pensavi? Ora prima pensi, poi filtri, infine parli. Ma non sarebbe bello poter fare le cose senza preoccuparsi delle conseguenze? Perché, ora che puoi, non fai più quello che hai tanto desiderato?

E ti ricordi la prima volta che hai visto il mare? Il rumore delle onde, la sabbia calda tra i piedi, riesci a ricordare la tua prima sensazione? No, perché ormai sei abituato, ma non sarebbe bello rivivere tutto di nuovo?

È questo il lato luminoso e positivo dell’Alzheimer: gli altri non proveranno mai due volte le stesse emozioni. Se tu ne hai la possibilità, ricordati: è unica! Usala al meglio, non sottovalutarla e non rattristartene. Usa sempre ogni occasione al meglio per una vita più felice!

Mentre il nonno peggiorava questa famiglia aveva trovato il modo per affrontare la malattia, vivendo più serenamente.

Ovviamente non ho potuto riportare tutti i diari, ma ho scelto alcuni dei passaggi più significativi del percorso psicologico svolto perché ritengo che queste pagine non riguardino solo l’Alzheimer e le famiglie costrette a conviverci, ma chiunque abbia un problema. Il messaggio, per quanto si adatti sempre a ciò che si sta vivendo mentre si legge, mi sembra innegabile che riguardi l’influenza che il modo in cui si guarda alla vita ha su questa. Ci sarà sicuramente chi ne troverà molti altri, probabilmente anche più profondi, ma questo è ciò che volevo trasmettere trascrivendo questi diari.