Sez. Racconti 2017 – terzo classificato

L’ALBERGO LEONE

di Tiziana De Luca Radocchia

 

Quando nel 1935 in paese si cominciò a diffondere la voce sulla costruzione della nuova chiesa, un certo Quintiliano Di Matteo, che tutti chiamavano Quintino per la sua statura tutt’altro che titanica, drizzò immediatamente le orecchie.

Fascista della prima ora, era stato l’unico del paese ad aver partecipato alla marcia su Roma.

Appena sposatosi, si era riproposto di chiamare Benito il primo figlio maschio, ma non ebbe fortuna: la moglie partoriva solo femmine a nessuna delle quali ebbe la forza d’animo di metter nome Rachele.

Alla nascita della quarta, pose fine alle sue fatiche, non appena la testardaggine lasciò il posto alla rassegnazione.

Adiacente alla sua casa possedeva un grosso locale adibito a trattoria, i cui clienti abituali non erano molti, ma sufficienti a garantirgli una vita decorosa.

Anche perché la trattoria fungeva da dopolavoro e da rivendita di vino e gassose.

Oltre che dal vecchio parroco don Prospero, rimasto da un anno privo di perpetua uccisa dal tifo, era frequentata dal sarto mastro Attilio, uno stagionato scapolone che viveva in solitudine, dal brigadiere dei carabinieri anch’egli scapolo, dal segretario comunale proveniente dalla città e da un altro paio di persone.

D’inverno, dopo cena, tiravano tardi per affrontarsi in interminabili scontri di tressette accanto al camino, avvolti dalla densa e puzzolente nuvolaglia dei tremendi tabacchi che don Prospero bruciava nella sua pipa, alternandoli a sigari ancor più pestilenti.

Questi, quando l’esito della partita già cominciava a delinearsi a suo sfavore, si scaldava e dava di pugno sul tavolo facendo trasalire gli assorti compagni e traballare i bicchieri stracolmi di vino; se poi la partita era persa, mugugnava qualche  personale accidente, bizzarro ma benevolo.

Ogni tanto indulgeva alla contrizione, biascicava qualche breve ed incomprensibile litania in un latino piuttosto immaginario, avendo dimenticato quello vero, e si segnava con la mano destra, tenendo sempre ben saldo il sigaro tra l’indice ed il medio.

Alla fine, ognuno andava a dormire: il parroco nella canonica della chiesa, il brigadiere nella caserma, il segretario comunale presso una famiglia che gli aveva concesso in affitto la stanza migliore pur di arrotondare il gramo bilancio familiare, gli altri a casa propria.

Ora, poiché era risaputo che la chiesa sarebbe stata costruita da una ditta forestiera, il titolare, il capomastro e qualche assistente avrebbero avuto sicuramente bisogno di risiedere in paese.

Così Quintino uintino QQQ   QQQdecise di trasformare in locanda la grossa soffitta sopra la trattoria, per ricavarci almeno quattro camere ed un gabinetto in comune, come nelle modeste esigenze dell’epoca.

Interpellò allora mastro Peppe, un esperto muratore che si avvaleva dell’aiuto del figlio, dei due fratelli e del vecchio padre mastro Antonio, che ancora sapeva rendersi utile.

Mastro Antonio era diventato famoso per avere eretta, da giovane, la cappella funeraria ad un barone del vicino paese, sul finire dell’800.

Questo personaggio è tuttora celebre per la sua natura tanto autoritaria quanto stravagante, a tal punto da far realizzare la cappella al di fuori del cimitero, nella sua tenuta ai margini del paese, molto scomoda da raggiungere.

Vecchio e malandato, non poteva più né andare a cavallo né a piedi sicché, appena la cappella fu ultimata, volle esaminarla costringendo la servitù a trasportarlo sopra una sorta di lettiga.

Come la scrutò, andò su tutte le furie insultando i figli che non avevano compreso le sue intenzioni: così, a proprie spese, la fece demolire e ricostruire poco distante, forse non più di trenta o quaranta metri.

La cappella era ricca e sfarzosa, in stile neoclassico come nei suoi desideri, e grande abbastanza da contenere tutta la propria stirpe, piuttosto numerosa.

Ma il barone impose che servisse solo per due salme, la sua e quella di Annibale.

Morì prima Annibale, e fu tumulato con i fastosi onori riservati alle persone d’alto rango, seppur strettamente laici trattandosi del suo fidato cane lupo.

Tre anni dopo morì anche lui, fatto frettolosamente tumulare dai figli nella tomba di famiglia del cimitero comunale, in barba alle sue pazze disposizioni.

La cappella, sebbene abbandonata ed incustodita, resiste ancora alla severità del tempo, a testimonianza delle stranezze umane.

Quintino, dunque, si accordò sul prezzo con mastro Peppe ed in meno di tre mesi l’opera fu compiuta.

Una camera, come nelle attese, se la riservò il capomastro della ditta appaltatrice, per tutta la durata dei lavori.

Altre due le occuparono regolarmente don Prospero, cui non garbava continuare a dormire da solo data l’età, ed il segretario comunale.

L’ultima venne destinata alle persone di passaggio, quei commercianti di animali, di grano o di uva che preferivano sostare almeno una notte piuttosto che intraprendere subito i disagevoli viaggi di ritorno.

Durante la sua demolizione, si diffuse la voce che la vecchia chiesa nascondesse un tesoro, poi rivelatasi una burla, tanto che da Milano arrivò in paese il giornalista Orio Vergani che, sul Corriere della Sera, riportò la notizia attraverso un articolo che rimane un pezzo di maestria.

Partì dalla città più ricca ed importante d’Italia per dirigersi verso uno dei suoi paesi più poveri e più piccoli sul quale ebbe a scrivere che, “come tutto capitale, ha solamente un panorama”.

Naturalmente, per i due giorni di soggiorno in paese, alloggiò nella locanda di Quintino, piacevolmente confortato più dall’appetitoso aspetto della moglie, che da quello dei suoi piatti.

Per due sere, subito dopo cena, la trattoria si riempì di curiosi di ogni genere: il maestro elementare, la guardia municipale, il medico condotto, artigiani e contadini.

Facevano a gara per essere interrogati da un personaggio tanto illustre ed importante, allora forse il più autorevole giornalista italiano.

Certo non gli fu facile comprendere i loro discorsi, giacché soltanto quattro o cinque persone si esprimevano bene in italiano; gli altri usavano un dialetto così antico che per essere compreso era necessaria la traduzione del maestro elementare, il quale si prestava volentieri al ruolo d’interprete.

Il giorno prima di ripartire, durante il pranzo, Quintino ebbe un lungo colloquio col giornalista, che aveva preso a simpatia la sua franchezza.

Gli parlò della sua idea di costruire una piccola trattoria sulla Pietra di Castello, il punto più alto del paese, dal quale si potevano scorgere i territori di tutte e quattro le Province abruzzesi, giù fino al mare.

Lo condusse sul luogo e gli spiegò il suo progetto; Orio Vergani rimase molto colpito dall’originalità dell’iniziativa, e gli manifestò così il suo entusiasmo:

– Caro sciur Quintino – gli disse – sono sicuro che i clienti verranno apposta a pranzare qui da tutte le parti della Provincia, anzi di tutta la Regione. Fatemi sapere quando la trattoria sarà pronta, perché giuro che verremo da Milano io ed i miei amici a gustare la cucina di vostra moglie e lo splendido scenario.

Poi continuò:

– Nel frattempo, però, vi consiglio di migliorare l’aspetto della vostra locanda.

– In che modo? – gli domandò Quintino.

– Cominciando col mettere almeno una bell’insegna, ostrega!

Non trascorse molto tempo, che le autorità del paese incaricarono un pittore di Paganica di restaurare la cappella dell’Oratorio fuori le Mura.

Il restauro durò svariati mesi, ed il pittore durante questo tempo rimase ospite nella locanda di Quintino.

Una sera, dopo cena, mentre si chiacchierava davanti al camino, Quintino si ricordò del suggerimento del giornalista. 

    – Sentite – disse al pittore – vorrei che mi dipingeste una bella insegna sopra la porta della trattoria.

Il pittore uscì, esaminò la parete sopra la porta, valutò che era liscia e grande abbastanza e concluse:

– E’ possibile, ma dovete decidere che nome darle…

Ne parlarono a lungo fino a tardi, ed alla fine convennero che si sarebbe chiamata Albergo Leone, in omaggio al nome di suo padre dal quale l’aveva ereditata.

Insieme al nome, da comporre in bello stile gotico, Quintino pretese che fosse raffigurato anche un leone.

    – Come lo preferite – gli domandò il pittore – con o senza la catena?

Quintino restò interdetto, ma poi si riprese subito:

– Un leone dipinto con la catena non l’ ho mai visto  –  obiettò – lo dovrete rappresentare senza.

Appena ultimato il restauro della chiesa, in un paio di giorni il pittore dipinse l’insegna, raffigurando un imponente leone rampante nell’atto di ruggire.

Erano trascorse un paio di settimane da quando costui era ripartito, che una notte si verificò un tremendo temporale con tuoni e lampi.

La mattina dopo, col bel tempo, Quintino usci di buon umore per andare dal pizzicagnolo, ma nel rientrare gli si annebbiò la vista per la brutta sorpresa.

La pioggia aveva completamente lavato il leone dell’insegna, ed era rimasta solo la scritta, salvatasi perché riparata da un balcone.

Per quello che gli era costato il dipinto, Quintino divenne più furioso di un leone vero, e le sue bestemmie furono udite, oltre che dal vicinato, anche dalla guardia municipale che in quel momento si trovava nei paraggi.

Questa gli si avvicinò e sottovoce gli intimò di calmarsi, pena la multa di dieci lire che durante il regime fascista veniva comminata ai bestemmiatori in luogo pubblico.

Quintino si trattenne a stento, mentre sibilava tra i denti:

    – Nicò, che mi può fare una multa di 10 lire di fronte alle 200 che ho sprecato per far dipingere un leone che ora non c’è più?

A quel punto la guardia alzò gli occhi verso l’insegna, capì e si ammutolì.

Cercò in ogni caso di calmarlo e di rincuorarlo:

    – Fattele restituire – gli consigliò.

– Come? -urlò Quintino – dove diavolo lo vado a cercare? E se lo cerco è meglio che non lo trovo, sennò rischio di finire in galera, concluse rabbioso.

– Scrivigli una bella lettera, io al Comune ho conservato il suo indirizzo.

Quintino seguì il consiglio ma, avendo più dimestichezza con i numeri che con le vocali e le consonanti, la bella lettera se la fece scrivere dal segretario comunale per chiedere spiegazione dell’accaduto e pretendere il risarcimento dei danni.

La breve risposta del pittore, che non si fece attendere, diceva testualmente:

    – Gentile signor Di Matteo, io vi avevo chiesto se il leone lo dovevo dipingere libero oppure incatenato, e sappiamo cosa sceglieste.

Il leone si è spaventato al rumore dei tuoni, ed essendo libero è fuggito. Vi auguro che possa ritornare-.

Quintino non batté ciglio, incassò bene il colpo e non cercò alcuna rivincita.

Tenne la sua locanda fino a che l’età e le circostanze glielo permisero.

Le figlie si erano sposate tutte fuori paese, e nessuna volle seguire le orme del padre.

Don Prospero si era trasferito presso una casa per anziani, dove aveva continuato a giocare a tressette, nutrendosi di montepulciano ed aspirando tabacchi sempre più puzzolenti dalla sua pipa, fino a mezz’ora prima di morire, serenamente.

Il brigadiere fu selvaggiamente ucciso nel 1944, davanti alla locanda.

La trattoria sulla sommità della pietra rimase solo un bel sogno, perché le istituzioni totalitarie prima e quelle democratiche poi, fecero a gara per non rilasciargli il permesso, probabilmente per non correre il rischio di dare lustro al paese, che con un motivo di richiamo così singolare avrebbe certamente combattuto meglio la propria agonia.

Quintino chiuse la locanda a guerra finita.

I suoi nipoti, di recente, l’ hanno venduta ad uno straniero, preferendolo ai paesani; è un “braveheart”, se si è spostato da Londra, una delle città più grandi e civili d’Europa, per stabilirsi e crearsi una famiglia in uno dei suoi paesi più piccoli ed ignorati.

Sopra la porta s’intravede ancora, sbiadita dal tempo, la scritta Albergo, mentre del leone nessuna traccia: evidentemente preferì non ritornare.